LIBRI

L’umiliazione,  sesso e morte  in Philip Roth 



Philip Roth, l’autore americano che non ebbe il premio Nobel (cosa che desideravano i lettori di mezzo mondo) a volte riesce a stupirmi anche con i suoi romanzi meno noti, ad esempio “L’umiliazione”, il trentesimo della sua lunga produzione. Il che compensa i dubbi che ho nutrito molti anni fa nel leggere quello che è considerato il suo capolavoro, “Pastorale americana”. Dubbi generati non dallo stile, sempre inappuntabile, ma proprio dal contenuto, che mi era parso “criptoconservatore”: nel personaggio della figlia dello Svedese, terrorista, lesbica e seguace di una religione indiana, ci avevo visto un de profundis, piuttosto ingeneroso, per la controcultura americana. Del resto, i grandi libri spesso fanno scaturire più domande che risposte. E in ogni modo, bisognerebbe fare attenzione nell’attribuire ad un romanzo significati paradigmatici: un romanzo parla di quei personaggi lì, di quei sentimenti lì, di quelle situazioni lì. La sua forza è data dalla capacità di restringere il campo, di mettere a fuoco, per esaltare i dettagli, anche se così facendo, come per magia, i nostri orizzonti si aprono e la nostra visione si allarga.

“L’umiliazione” è del 2009, appartiene dunque alla produzione più tarda di Roth, che sarebbe scomparso a New York nel 2018. I temi di questo suo penultimo romanzo sono l’insuccesso tardivo di un uomo che in passato successo ne ha avuto molto, e come sempre il sesso e la morte.

Il protagonista è l’attore di teatro Simon Axler che, ad un certo punto, scopre di avere perso il proprio talento, e precipita nella depressione. Per uscirne si fa ricoverare in una clinica dove conosce una donna che sta peggio di lui, avendo scoperto che il marito abusava della figlia. Dall’incontro potrebbe scaturire qualcosa, ma Axler è troppo passivo per dargli un seguito. La svolta invece arriva dall’incontro con la figlia di una coppia con cui Axler è legato per motivi assieme affettivi e professionali. La loro relazione viene osteggiata in molti modi, ma sembrerebbe destinata a durare, avendo per collante il desiderio e l’inclinazione di entrambi verso la trasgressione, spingendo Axler ad illudersi di ringiovanire. E qui ci fermiamo perché della trama abbiamo detto fin troppo.

Fallimento di una carriera, abbiamo detto, o quantomeno (visto che le glorie del passato rimangono comunque tali) incapacità di rassegnarsi alla mestizia del presente, al lento declino del talento e delle energie con il procedere dell’età. Ma anche le eterne ossessioni di Roth, il suo insaziabile appetito sessuale, declinato in mille modi nella sua produzione letteraria, a partire da quel “Lamento di Portnoy” con cui aveva clamorosamente esordito nel 1969, il lungo, fluviale monologo di un giovane ebreo americano di cui si ricordano soprattutto le parti dedicate alla masturbazione. E poi la morte, che dell’eros è l’inevitabile contraltare.

La critica non è stata tenera con questo romanzo, spingendosi fino a sostenere che Roth fa la parodia di se stesso. E certamente, se prendiamo come pietra di paragone un capolavoro come “La macchia umana”, qui siamo molto distanti. Ma non anni luce. Nel senso che Roth è sempre questo, prendere o lasciare. È la quintessenza di un mondo che non è solo New York né solo l’America, è trasversale. Un mondo dove le coppie scoppiano e si riformano a ritmo accelerato. Dove il sesso è un motore potentissimo, ma anche il senso di colpa. Un mondo psicanalitico, freudiano, molto colto, intellettuale. Un mondo dove l’arte conta, e contano gli interrogativi che suscita, a partire da quello, fondamentale, sul rapporto fra la vita e la sua rappresentazione.

 













Altre notizie

Attualità