La guerra dimenticata del Congo
Mentre scriviamo rimbalzano anche in Italia, nel disinteresse generale, le notizie sugli ultimi sviluppi della guerra del Congo, una guerra “ininterrotta”, se datiamo il suo inizio alla seconda metà degli anni 90, quando l’intervento nel paese dei Tutsi armati dal Ruanda (paese appena uscito a sua volta da un terribile genocidio) provocò la caduta del dittatore Mobutu.
Il Congo, o meglio la Repubblica democratica del Congo, l’ex-Congo belga assoggettato nell’800 alle brame di un altro spietato autocrate, Leopoldo II, re dei Belgi (considerato il primo “genocidiario” della storia), poi diventato Zaire con l’indipendenza, è sempre stato un paese travagliato. Il motivo sono naturalmente le sue ricchezze, enormi, che fanno gola a molti: uranio, diamanti, coltan (prezioso, quest’ultimo, per i microchips dell’industria elettronica), l’elenco è lungo. Ma fra le ragioni dell’instabilità insanabile del paese ci sono anche la rapacità delle sue classi dirigenti e gli appetiti dei potenti vicini, come il Ruanda e l’Uganda, assieme a quelli delle potenze esterne, Francia, USA, Cina.
Chi volesse cominciare a capire le vicende del “gigante malato” dell’Africa può farlo attraverso un’opera magistrale uscita una decina di anni fa, “Congo” (Feltrinelli, trad. Franco Paris), di David Van Reybrouck, autore belga nato a Bruges nel 1971. Il suo libro è stato un caso editoriale ed è facile capire perché: Van Reybrouck appartiene alla scuola dei Kapuscinski, dei Terzani, dei Saviano, delle Fallaci. Mescola insomma le doti del giornalista di razza (pur non essendolo a tempo pieno), la cultura dell’intellettuale di professione, capace di spaziare su argomenti diversi (ad esempio, recentemente, la crisi della democrazia basata sul suffragio universale), e la capacità di inchiodare il lettore propria del grande narratore.
Sia che incontri uno dei signori della guerra che hanno messo a ferro e fuoco le province orientali del Congo, quelle del Kivu, che sono anche teatro dell’ultima crisi generata dalla conquista di Goma da parte dei ribelli dell’M23, sia che racconti eventi apparentemente più “leggeri” come la guerra della birra di Kinshasa, protagoniste grandi multinazionali come la Heineken, l’effetto è lo stesso: vogliamo girare pagina, vogliamo andare avanti a leggere.
Van Reybrouck non giustifica i mali del presente con le ingiustizie passate, ma è attento nel mettere in luce l’eredità coloniale, i conflitti che hanno lacerato il paese anche durante la decolonizzazione (la crisi del Katanga, l’assassinio di Lumumba, la morte del segretario dell’Onu Dag Hammarskjöld) e la guerra fredda (in Congo venne a combattere persino Che Guevara, prima della tragica spedizione boliviana). Trattiene lo sdegno, a volte necessario, e si mette in ascolto dei testimoni, grandi e piccoli, ma con una preferenza per i secondi, proprio come consigliava Terzani, che invitava i giornalisti a non inseguire solo i capi di stato e gli incontri ufficiali, ma ad andare a sentire cosa avevano da dire cuochi e camerieri che preparavano i pranzi. Il merito di un libro come questo è anche di mostrare che l’Africa non è “lontana”: la sua storia, e il suo destino, sono intrecciati a quelli del resto del mondo, In primo luogo dell’Europa.