3 maggio 1945

La strage degli operai di Bolzano: Toni, che divise il pane prima di essere ucciso

Antonio Peretto è uno degli operai fucilati al muro della Lancia. Era andato in fabbrica, alla Sida, per difendere i macchinari dai tedeschi


di Luca Fregona


BOLZANO. Il viso buono di un uomo buono. L’espressione timida, quasi assorta. Antonio “Toni” Peretto prima di morire ha diviso un pezzo di pane e due fette di salame. Un gesto per calmare i compagni più giovani. Era il pranzo che si era portato da casa, il 3 maggio 1945, il giorno della “strage degli operai” della Zona.

Toni Peretto aveva 46 anni. Era un “ragazzo del ’99”. Spedito al fronte a 17 anni. Sopravvissuto alla Prima guerra mondiale. Poi tornato a Melara, nelle campagne padovane dov’era nato. Era venuto a Bolzano nel 1937 in cerca di lavoro e fortuna, con l’adorata moglie Emma e il fratello Gino. «Appena arrivati - racconta oggi il nipote Antonio - sono andati ad abitare tutti insieme a Cardano, in una vecchia casa accanto al rio Ega. A Cardano, nel 1938, è nato mio fratello Giuseppe». Antonio invece è nato nel 1950. Il padre ha voluto dargli il nome di quello zio sfortunato, ammazzato a guerra ormai finita. «Erano legatissimi».

Giuseppe nel 1945 aveva 7 anni. «Un’età - dice - in cui si inizia a capire, magari non tutto, ma molto... E a fermare i ricordi».

Racconta Giuseppe: «Mio padre aveva ottenuto una casetta alle Semirurali. Via Milano 111, di fronte al bar “La Padovana”. Lo zio Toni e la zia Emma erano venuti a stare con noi da qualche mese. La casa di Cardano, dove vivevano ancora, era andata distrutta durante uno degli ultimi bombardamenti. Quando la casa venne giù, accompagnai mio padre ad aiutare lo zio per tentare di salvare qualcosa. Ma era tutto bruciato, non c’era più niente. Ricordo due corpi carbonizzati in mezzo alla strada. Una scena così, un bambino non se la dimentica...»

Il padre e lo zio sono due bravissimi falegnami. Papà Gino lavora alla «Caproni», la fabbrica d’aerei che si trova dentro l’aeroporto di san Giacomo. Lo zio Toni è operaio alla Sida, la Società italiana dell’arredamento, una fabbrica che produce serramenti, tapparelle e cassette per munizioni. Lo stabilimento è in Zona industriale, all’incrocio tra le attuali via Righi e via Pacinotti.

«Era una specie di capo reparto - continua Giuseppe -. Quando andavo a trovarlo, lui stava in un gabbiotto che dominava il reparto produzione. Mi dava fogli e matite e mi lasciava stare lì a disegnare. Lo adoravo mio zio. Il sabato veniva a prendermi in bicicletta alle Semirurali e mi portava a Cardano. Aveva montato apposta un seggiolino sulla canna. Rimanevo con loro fino al lunedì mattina, quando mi riportava indietro prima di attaccare il turno alla Sida».

Il 3 maggio 1945, Giuseppe, lo ricorda molto bene. «È inchiodato nella mia testa. Ogni singolo istante. Ci siamo alzati presto, come al solito. Si sentiva sparare dappertutto». La città è piena di tedeschi in rotta. Il Cln ha dato ordine ai partigiani di proteggere le strade e gli stabilimenti della Zona industriale. I tedeschi sono nervosi: rubano, arraffano, sparano. I partigiani reagiscono. Bolzano piomba nel caos. Sul piatto c’è anche il futuro dell’Alto Adige nelle trattative di pace. L’Austria lo rivuole indietro. «Quella mattina - riprende Giuseppe - mio padre non voleva che lo zio andasse in fabbrica. “Toni, Toni, non sta andare per l’amor di dio - gli diceva -. I tedeschi i xe dappertutto. I te copa”».

Ma Antonio Peretto, come molti altri, decide invece che «bisogna andare».

Per proteggere la fabbrica, i macchinari, il lavoro, il futuro. Lui è anche incaricato della sicurezza dello stabilimento, fa parte del servizio interno dei vigili del fuoco. «Capisci Gino? Io DEVO andare. Stai tranquillo, sarò prudente». S’infila al braccio al fascia da pompiere. Prende un pezzo di pane, un “toco” di salame, bacia Emma, e va. Quello che è successo dopo lo raccontano i sopravvissuti: Bruno Bovo, Ottorino Bovo e Andrea Cavattoni. E le voci che negli anni sono arrivate alla famiglia Peretto.

Toni arriva alla Sida verso le 7. È uno degli operai più anziani ed esperti. I tedeschi, furiosi per un attacco dei partigiani in via Volta, entrano alla Sida poco prima delle 8. È un rastrellamento. Mitra puntato alla schiena, fanno uscire sulla strada una decina di operai con le mani incrociate dietro la testa.

«Probabilmente la sua fascia da pompiere è stata scambiata per quella tricolore che portavano i partigiani...», dice oggi il nipote Antonio. Ma quel giorno i tedeschi non vanno per il sottile. Gli operai vengono allineati al muro della CEDA, lo stabilimento di fronte in via Pacinotti (oggi c’è la Selectra). «Italiano kaputt, Italiano kaputt», urlano.

In quella interminabile attesa, Toni Peretto cerca di tranquillizzare i più giovani. «Non vi preoccupate, non ci ammazzano mica, non ha senso. La guerra è finita...». Trova persino la forza (e il coraggio) di prendere pane e salame dalla tasca della giacca per dividerlo coi compagni. «To’, mangia», dice. Una scena rimasta impressa nella memoria di Bruno Bovo: «Era un uomo molto buono - raccontaoggi, 72 anni dopo, con la voce rotta ancora dall’emozione e gli occhi chiusi di chi rivede tutto davanti a sé -. Quel gesto non l’ho mai dimenticato...»

Ma Toni non si fa illusioni. Lui ha fatto la prima guerra mondiale, come Walter Saudo, uno dei più anziani alla Sida. Sono amici fraterni. «Walter - gli dice Toni -, fammi una promessa: se sopravvivi vai da mia moglie Emma. Dille che l’abbraccio e che le voglio bene».

Vengono portati altri operai catturati in altre fabbriche della Zona. Mani dietro la testa, la colonna viene fatta muovere a piedi verso il muro della Lancia (oggi Iveco) di via Volta. Poche centinaia di metri. «Eravamo inebetiti - ricorda Bruno Bovo -. Non sentivo più niente...».

Vengono allineati spalle al muro. Poi, dalla torretta di un autoblindo, i tedeschi sparano con il mitragliatore. Due raffiche: la prima all’altezza della pancia, la seconda ai corpi in terra. È un’esecuzione. Una rappresaglia. Una strage. I tedeschi iniziano a dare il colpo di grazia ai sopravvissuti. C’è che li implora di non farlo, chi li sfida a fare presto. Poi succede qualcosa: forse i partigiani che hanno iniziato a sparare dalla Montecatini, forse la paura di trovarsi circondati, i tedeschi scappano, e non finiscono il “lavoro”. Arriva un camion con le insegne della Croce Rossa, è un 3RO. A bordo ci sono Ottorino Bovo, un partigiano ferito in altri scontri ma in grado di muoversi e l’autista Francesco Paolo Giudilli, un altro degli eroi sconosciuti del 3 maggio. Caricano morti e feriti, una ventina di corpi. Antonio Peretto è gravissimo, non parla. Walter Saudo è gravissimo, ma ancora cosciente. Racconta Ottorino Bovo, oggi 72 anni dopo – «Peretto lo conoscevo bene. Eravamo amici. Era in fin di vita, lo avevano colpito alla testa, gli colava il sangue sul viso. Durante la corsa verso l’ospedale (che all’epoca era in via Fago, dove oggi c’è Villa Serena, ndr), l’ho preso tra le braccia. Lo stringevo forte, ma lui non reagiva». L’ambulanza si ferma alle Semirurali per caricare altri morti, poi a Cristo Re, dove salgono il frate domenicano Nicola Bellagamba e la crocerossina Anna Cox.

Il mite impiegato ammazzato per aver chiesto un passaggio Andrea Gabrielli è stata ucciso dai tedeschi con un colpo al cuore e uno alla testa in via Claudia Augusta, aveva 5 figli

Il frate dà l’estrema unzione ai morti e ai moribondi. «Antonio Peretto - continua Ottorino Bovo - si è spento tra le mie braccia. È morto prima di arrivare in ospedale».

Sono le 10 di mattina. Nello stesso momento si spara anche alle Semirurali, in via Milano. «Guardavo dalla finestra - ricorda Giuseppe Peretto - : i tedeschi scendevano da camion militari gialli, credo fossero reduci della campagna d’Africa. Sparavano a tutto quello che si muoveva. Ma anche i nostri sparavano dalle case. Tanti ragazzi avevano recuperato pistole e fucili. Uno di questi ragazzi è stato ucciso nella roggia che scorreva sotto casa nostra...»

Quando, nel primo pomeriggio, la situazione torna calma, dalla strada sale un urlo: “Gino, Ginoooo”.

«Ci siamo affacciati: un tizio era arrivato tutto trafelato in bici per avvisare mio padre». “Gino, Gino hanno ammazzato Toni, hanno ammazzato Toni. Lo hanno portato all’ospedale...”. Anche la moglie di Toni, Emma, sente. Gino la calma. «Forse è solo ferito, forse è ancora vivo. Vado a cercarlo». Gino corre in via Fago. È quasi sera. Gino vede Ottorino Bovo. Si conoscono. «Mi hanno detto che i tedeschi hanno ucciso Toni...». Ottorino resta in silenzio. Gino capisce. Ottorino lo accompagna all’obitorio. I corpi sono allineati. Oltre 50. Sono le vittime della “battaglia di Bolzano”. Il volto devastato dai colpi, la fascia da pompiere al braccio, la tuta da lavoro, la giacca ancora indossata... Gino lo riconosce subito.

«Mio padre - racconta oggi Antonio Peretto - è morto nel 1996. Non parlava mai del 3 maggio. L’unica cosa che so è che quella sera ha recuperato una porta, ha appoggiato sopra il corpo del fratello, come fosse una lettiga, e lo ha portato via. Non so se a casa, alla chiesa di Don Bosco, o a Cristo Re. Ma non ha voluto lasciarlo lì». Il giorno dopo nella casetta di via Milano passa Livio Saudo, figlio di Walter. Cerca Emma. «Mio padre prima di morire in ospedale mi ha affidato un messaggio per lei da parte di Toni Peretto», spiega.

«Emma - dice il ragazzo alla donna - ti abbraccio, ti ho sempre voluto bene e sempre te ne vorrò, ti porto nel cuore con me».

Una morte così lascia ferite profonde nei sopravvissuti. Lascia orfani. Di un fratello, di un figlio, di uno zio, di un marito amatissimo. La moglie Emma dopo la guerra trova lavoro come cuoca nell’asilo tra piazza Matteotti e via Milano. «Non avevano figli. Non si è mai risposata. Abitava in un piccolo alloggio dentro la scuola, ma la sera veniva sempre da noi a vedere la televisione - racconta Antonio -. Non ha mai più parlato del 3 maggio, nemmeno una parola. Ma gli ultimi mesi prima di morire nel 1996 piangeva. Piangeva sempre».

Negli anni Sessanta, il corpo di Antonio Peretto è stato riesumato e traslato in una tomba comune insieme alle altre vittime della strage del 3 maggio. Là dove ancora oggi c’è la lapide che le ricorda.













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