La storia

Nel nome della madre: Alda,  la vietnamita senza patria

La nonna khmer e il nonno francese ufficiale nel Tonchino, la madre euroasiatica che conosce il padre, un triestino, sul piroscafo  La fuga da Hanoi e dai giapponesi nel 1940. Storia di una bolzanina


Luca Fregona


Bolzano. Cái bung, la pancia. Cái mieng, la bocca. Mũi, naso. Mat, occhi... L’indice scorre dallo stomaco alle labbra, dal naso agli occhi. Gli immensi occhi neri e lunghi fissano un punto lontano. L’altra mano si aggrappa al ciondolo in madreperla sul petto. «Un cimelio di famiglia». Un drago. Alla parete c’è un raffinatissimo arazzo di seta ricamato a mano. Scene di vita contadina nei villaggi. Ha più di cento anni. «Mia madre indicava i copricapi e mi diceva di che tribù erano...», dice con un leggerissimo accento triestino. È bellissima Alda Mathion Bonatta. Si muove in questa casa piccola, una mansarda soppalcata, che è un mondo a parte. Un angolo di Vietnam nel centro di Bolzano. Tutto, qui dentro, parla del Vietnam, del Tonchino, della baia smeraldo di Ha Long. I libri impilati con cura (Terzani, Han Suyin, Graham Greene...), le videocassette, i quadri, le sete preziose, i bauli da piroscafo con le cassettiere e gli appendiabiti. La cartina dell’Indocina è appesa al muro accanto alla bandiera rossa con la stella gialla a cinque punte. Sopra la porta un Non La, il cappello conico dei contadini di risaia. Gli ideogrammi dipinti sul bambù corrono lungo il tinello. «Raccontano una favola dolce e delicata». Una tavola rossa incisa in caratteri dorati domina la stanza. «C’è scritto “Tran”, il nome antico della mia famiglia». Sul tavolo in tek una foto in bianco e nero: una donna di etnia khmer guarda fiera nell’obiettivo. I capelli raccolti nella toque nera, un cappello tradizionale piatto come un tamburello. Porta l’Ao Dai, la veste delle donne vietnamite, in seta nera e un girocollo di perle a serpente. La data: 1910. «È mia nonna - dice Alda -. È stata scattata quando vivevano ancora ad Hanoi». Prima della guerra. Anzi: prima delle guerre. La seconda mondiale, la prima di Indocina, il Vietnam “Usa”. Una terra martoriata, violata dai francesi, dai cinesi, dai giapponesi, poi ancora dai francesi, e infine dagli americani. Alda Mathion racconta. La voce s’incrina, sopraffatta da frammenti di memoria di una famiglia che non esiste più.

Delta del Tonchino

Fine ’800 La nonna khmer è una ragazza di vent’anni nata in un villaggio del delta del Fiume Rosso. Si chiama Tran Thi Vi. «Tran è il ceppo familiare, la dinastia. Thi significa “di”. Vi era il nome proprio». “Vi della dinastia dei Tran” conosce Jean Ange Leberger, un alto ufficiale della dogana di 27 anni d’origine bretone, spedito dalla Francia coloniale nel Tonchino. I due si innamorano perdutamente. E “Vi della dinastia dei Tran” diventa Madame Anna Leberger. La signora Leberger. Cognome del marito e nuovo nome francese. Per sposarsi ha dovuto convertirsi al cattolicesimo. Solo una formalità per lei, che non smette di vestire gli abiti khmer e di praticare la fede buddista nella pagoda di Hanoi. La Francia ha occupato il paese tra il 1860 e il 1880, imposto la lingua e inserito i mandarini nel sistema dell’amministrazione coloniale.

Alda Mathion mostra una catenina in oro. Il ciondolo contiene da un lato la foto minuscola della nonna nel suo orgoglio viet, sull’altro quella del nonno con i baffi a manubrio e il Kepì coloniale. Lui però non cercherà mai di farla diventare qualcos’altro, una francese. Mettono al mondo cinque figli, quattro femmine e un maschio. «Una era mia madre, Annie detta Nanà - continua Alda -, nata nel 1910». Una famiglia euroasiatica, mista e agiata. Una bella casa ad Hanoi nell’elegante quartiere di Ha Dong, e una al mare, per le vacanze tra le dune di sabbia bianca di Cap Saint Jacques, nel sud, vicino a Saigon.

Jean Ange viene ucciso nel 1920 dai ribelli antifrancesi in un’imboscata nel Delta. Tran Thi Vi si trova da sola a tirare su la famiglia. «Mia mamma e le sorelle frequentavano la scuola francese di Hanoi. Erano delle privilegiate in un paese ancora dominato dal latifondo e dallo sfruttamento dei contadini». La Francia metropolitana si prende riso, caucciù, carbone, legno. Investe in grandi opere (ponti, dighe, ferrovie) che arricchiscono imprese francesi che utilizzano manodopera sottopagata. Governa il paese con la Legione straniera e la ghigliottina, mentre nelle piantagioni cresce la ribellione che è sociale e nazionalista insieme. «Da ragazze - prosegue Alda -, mia madre e le zie andavano spesso in Francia. Si sentivano vietnamite di cultura francese, élite in Indocina, ma guardate con sospetto in Europa per il colore della pelle, dove venivano etichettate in modo dispregiativo come “cinesi”».

Colpo di fulmine sul piroscafo

Nei primi anni ’30, in uno di questi lunghi viaggi sul piroscafo da Saigon a Marsiglia che duravano anche trenta giorni, conosce Baccio Mathion, un ufficiale di marina italiano di Trieste imbarcato sul transatlantico “Conte Verde” della compagnia di navigazione Lloyd Triestino. Un altro, Baccio, a cui hanno cambiato il nome. «In realtà di cognome faceva Mathionidis». Troppo greco per il fascismo che prima gli toglie l’“idis” e poi tenta di strappargli la acca. «Ma lui si è ribellato e almeno quella, l’acca, è riuscito a conservarla. E così è diventato Mathion».

Sulla nave verso l’Europa, i due si annusano, si corteggiano, si piacciono. Lei è stupenda, i capelli neri raccolti sulla testa, la pelle leggermente ambrata, gli occhi allungati scuri e profondi. In porto, a Marsiglia, Nanà lascia a Baccio l’indirizzo. La corrispondenza dura un anno: poesie e promesse d’amore. Lei lo chiama Baciò, all’orientale. Nel 1937 si sposano. Vanno a vivere a Shanghai dove fa base il “Conte Verde”. Arrivano che è appena finita la “battaglia di Shanghai”, passata alla storia come la “Stalingrado d’Oriente”. L’assedio giapponese si è concluso con il massacro di migliaia di soldati cinesi. La città è distrutta ma il “Conte Verde” deve mantenere i collegamenti tra la Concessione internazionale e il porto di Trieste. Nel marzo 1938, a Shanghai, nasce la prima figlia, Anita. Nel 1939, allo scoppio della guerra in Europa, si rifugiano ad Hanoi, dalla nonna. «In un palazzo di tre piani color crema, con gli stucchi in gesso e le finestre ampie in stile coloniale». La Francia intanto viene occupata dai nazisti. Il regime collaborazionista di Vichy abbandona il Vietnam al suo destino. Nel Tonchino i giapponesi hanno campo libero. Un’occupazione devastante. Uccidono, predano riso, provocano una carestia che causerà milioni di morti. «Di fatto la mia famiglia era prigioniera in casa dei giapponesi. Il fratello di mia madre, Jean Leberger, cavaliere della Legion d’Honneur, era governatore della Francia d’Oltremare. Nessuno si sentiva al sicuro. Nella tarda estate del 1940, mio padre riuscì a portare a Trieste mamma e Anita».

Da Hanoi a Trieste.

Un’altra foto: Nanà trascina Anita nelle strade tappezzate di manifesti del duce con la scritta “Vincere!”. Sul retro si legge in un italiano improvvisato: «Ecco una fotografia abbastanza brutta ma che ti dice l’amore della tua moglie e l’affezione della tua cara bambina. Trieste, 24 ottobre 1940». Un messaggio per Boccio, che è già in mare a combattere sulle navi da guerra. «In quattro anni è ritornato solo due volte: nel 1941, giusto in tempo di concepirmi. E alla fine del ‘42 per vedere la sua seconda figlia». A Trieste Nanà e le bimbe vivono isolate. La madre parla vietnamita, francese, inglese. Poco o niente italiano. «In casa utilizzava il francese, con mia sorella anche il viet, con me solo pochissimi vocaboli. Come quella volta che mi insegnò come si diceva pancia, bocca, naso...». La chiamano “la cinese con le bambine”. Altri, per umiliarla, “sporca cinese”. Lei all’inizio ci sta male, ma poi smorza con una battuta: “Cinese io? Ma non vedete che il mio è un altro giallo? Che gli occhi sono diversi?”.

«La gente non sapeva nemmeno cosa fosse il Vietnam, per loro gli orientali erano tutti uguali. Da piccole ci prendevano in giro. Anita si vergognava di dire che era nata a Shanghai. Io invece ero fiera delle mie origini. Non vedevo l’ora di diventare grande per poter andarlo a vedere, il Vietnam. Lo ripetevo sempre e mia madre, lei faceva finta di non sentire. Alzava le spalle. Voleva dimenticare da dove veniva ma con la testa era sempre là, nel Tonchino». L’assenza del padre marca questo isolamento che accentua il rimpianto e la nostalgia. Finita la guerra, Baccio passa alle navi commerciali e poi alle petroliere con la compagnia D’Amico. «Poteva stare via anche un anno senza tornare a casa».

Lo strappo.

La madre non smette di seguire con ansia il destino della sua famiglia rimasta ancora lì, in una terra devastata da un conflitto permanente. Il 2 settembre 1945 Ho Chi Minh, “Colui che porta la luce”, proclama ad Hanoi la Repubblica democratica nel Nord. Nel sud, a Saigon, riparte la riconquista della colonia della nuova Francia di De Gaulle. «Era chiaro che la guerra per noi non era affatto finita e che ne stava scoppiando un’altra». Pochi mesi dopo tutta la famiglia materna si trasferisce in Francia. Ma passano ancora sei anni prima che possano riabbracciarsi. «Abitavamo nella Zona A di Trieste, sotto occupazione inglese. Mia mamma non riusciva a ottenere il visto per la Francia. Una situazione molto dolorosa: mia nonna ormai era una donna anziana e malata, mia madre temeva di non riuscire a vederla un’ultima volta».

Finalmente, nell’agosto 1950, dopo molte insistenze da parte della nonna al consolato italiano, arriva il permesso di partire. «Ma solo per la mamma e noi bambine, a mio padre venne negato». I Leberger a Parigi occupano un palazzo intero al numero 4 di Rue Armand Moisant nel 15esimo Arrondissement.

«Era un’isola vietnamita. Mia nonna aveva l’altarino per gli antenati, metteva palle di riso e frutta nelle scodelle votive per i morti, accendeva l’incenso. Vestiva sempre con abiti tradizionali. Il piatto principale era il riso, come nel Tonchino. Sulla tavola non mancava mai il Nuoc mam, la salsa di pesce con cui si condiva tutto. Parlava con le figlie solo in viet. Quando si sono riviste, mia madre piangeva, soffriva per la lontananza e la vita perduta. Era stato uno strappo molto violento. Delle due identità predominava quella orientale».

La nonna khmer ogni giorno resta seduta per ore accanto alla finestra, a fissare il cielo. «Era diventata completamente cieca ma non si muoveva da lì. Per lei era una via di fuga». Alda è una bambina sveglia, insiste, vuole sapere del Vietnam. La madre tace e allora lei chiede alle zie e alla nonna. «Mi dicevano dolcemente di lasciar perdere. Che solo una pazza poteva pensare di andare “dove c’erano dolore e morte”. Erano delle esiliate senza speranza di poter rientrare. Il paradosso è che il mio nonno francese è sepolto nel Tonchino, mentre la mia nonna vietnamita riposa nella terra di Francia... Quella fu la prima e unica volta che vidi mia nonna, morì pochi mesi dopo».

L’Indocina, intanto, diventa il campo di prova della guerra fredda. Gli Usa finanziano i francesi con armi e milioni di dollari. La Cina di Mao e l’Urss fanno la stessa cosa con il Viet Minh, l’esercito di liberazione dello Zio Ho. Migliaia di morti, stupri, saccheggi, tortura, esecuzioni sommarie. Napalm. Famiglie distrutte. Un orrore che si concluderà (per poco) nel 1954 con la sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu, la divisione del paese in due sul 17esimo parallelo, e l’inizio di un altro incubo: il Vietnam americano. «Leggevamo con ansia sui giornali tutto quello che accadeva. Mia madre giustificava il colonialismo francese, dopo tutto era figlia di uno di loro. Ma era scandalizzata da quello che facevano gli americani. “Cosa c’entrano loro laggiù?, diceva. Li cacceremo”».

La profezia.

Gli americani se ne vanno, umiliati e sconfitti come i francesi, il 30 aprile 1975. Il Vietnam diventa tutto comunista. Un paese chiuso, impenetrabile. «Mia madre non ne parlava più. Morì nel 1979, quattro anni dopo mio padre, per un banale incidente. Si versò dell’acqua bollente addosso. Ad Hanoi, quando era una ragazzina, uno stregone cieco toccandole il volto le aveva predetto di stare attenta all’acqua, le disse che per tre volte avrebbe rischiato di morire, e l’ultima sarebbe stata fatale. E in effetti, prima, per due volte, rischiò di annegare. La terza, l’agonia durò 50 giorni. Quand’era alla fine, un sacerdote cattolico cercò di convincerla ad accettare l’estrema unzione. Lei lo mandò via. “Non ho bisogno, disse, io sono e resto buddista. Non ho paura”. Anche lei riposa in terra straniera, a Roma dove ci eravamo trasferite». E Alda? Col primo marito ha due figli. Ma quel matrimonio contratto quando aveva solo 19 anni, si esaurisce da solo. Alla fine degli anni Sessanta conosce sul Circeo l’ingegnere bolzanino Franco Bonatta. Lui ha 16 anni più di lei e un passato importante da partigiano. Il loro è un grandissimo amore. Hanno una figlia, Patrizia. Alda viene a vivere in Alto Adige. Franco muore improvvisamente nel dicembre del 1994. Un dolore che non smette di far male ancora oggi. Nel salottino c’è un suo ritratto, lo ha fatto il pittore Gordon Faggetter, il batterista e primo marito di Patty Pravo, noto per aver regalato a Giovanni Paolo II una tela con Cristo e i 117 martiri vietnamiti.

Il Vietnam, sempre il Vietnam... Alda ci è andata una sola volta, nel 1993, alla riapertura delle frontiere. «Un viaggio organizzato. Ottenni comunque il permesso di staccarmi dalla comitiva per visitare i luoghi della mia famiglia. Andai a vedere se c’era ancora la casa ad Hanoi. Era lì. Come l’avevano descritta mamma e le zie». Una foto a colori: un palazzo corroso dal tempo, il crema delle facciate sbiadito, gli stucchi quasi spariti, le ringhiere in ferro battuto arrugginite, un parcheggio al posto del parco. «Ma era ancora bellissimo. Ho iniziato a piangere. La mamma, la nonna, le zie... in qualche modo, le avevo riportate a casa».

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