Grottesco o reale?

Noi, gli Usa e il film con Di Caprio

L'ultima opera di McKay ha grande successo di pubblico. Ma divide. Spacca: o si ama o si odia. Al di là di qualsiasi giudizio sulla bellezza del film conta però una cosa: che sta facendo discutere tantissimo perché ci mette di fronte alla domanda "chi siamo noi oggi"?


Paolo Mantovan


Il film “Don’t look up” con Leonardo Di Caprio e Meryl Streep, spacca il pubblico: o si ama o si odia. Ma su una cosa mette d’accordo quasi tutti: il film (che è al cinema e su Netflix da qualche settimana) ci mette di fronte all’interrogativo “chi siamo noi oggi?”. E lo fa spiegando come la società si divida persino di fronte a un evento apocalittico. Forse lo dice in modo sgraziato, forse è troppo pessimista o arrogante. Sta di fatto che anche qui ci tocca scegliere: ci riconosciamo o no?

Il film sta riscuotendo un enorme successo di pubblico, ma spacca. Perché è un film che non lascia scampo. Senza spoilerare (come si dice oggi) o anticipare nulla, per non rovinare le sorprese a chi ancora non l’ha visto, basti dire che l’argomento è una cometa che fa rotta sulla Terra e lascia sei mesi di tempo prima della collisione. Ma non si tratta del classico film catastrofico dove tutti cercano di fuggire: l’opera del regista Adam McKay ci spiega i meccanismi sociali, psicologici, politici e mediatici che entrano in gioco oggi – adesso - quando l’uomo si confronta con un’emergenza. E quindi in ballo c’è tutto. C’è la nostra esistenza. C’è la reazione emotiva. Ci sono le leggi sociali che oggi imperano. C’è la scienza e c’è la sua negazione. E c’è – soprattutto – la società dello spettacolo. Che vive la cometa come una partita su cui dividersi. Fino all’ultimo istante.

Quindi, riassumendo senza raccontare nulla della trama, possiamo solo dire che ognuno di noi sceglierà se il film è puramente grottesco o se la realtà di oggi si confonde con il grottesco. Perché, ad esempio, la parte del presidente degli Stati Uniti – interpretata da una straordinaria Meryl Streep – sembra oltre l’immaginabile. Eppure, lo stesso Donald Trump, all’inizio della pandemia, da presidente degli Stati Uniti aveva parlato all’intera nazione di una cura contro il virus con iniezioni di disinfettanti e candeggina. E lo stesso regista ha confessato che, mentre cominciava le riprese del film ed è scoppiato il Covid, ha pensato che tutto fosse da rifare o addirittura da buttare perché la realtà stava superando ogni fantasia. 

E allora ne è uscito un film definitivo. Un film che denuncia chi siamo noi oggi. Questi siamo, ci dice McKay, questi qui che fanno battutine mentre si annuncia il disastro. E allora grida che non è più il tempo per certe cose perché non c’è più tempo per nulla. E forse una cometa ci spazzerà via e spazzerà anche tutto il chiacchiericcio suicida che stiamo accumulando.

Su questa chiave di lettura, su questo giudizio sull’umanità di oggi si può essere d’accordo o meno. Ma in “Don’t look up” (che sta a dire: “non guardate lassù” perché la cometa non c’è, come dicono i negazionisti) ci sono alcuni spunti che sembrano ineludibili. Perché dopo un film come questo si ha come l’impressione che qualsiasi altro film o serie tv o addirittura qualsiasi opera letteraria che ci voglia parlare di noi, oggi, debba fare i conti su ciò che questo film ci dice rispetto – almeno - a tre questioni.

1) La connessione continua al web. Siamo sempre connessi con lo smartphone, non ce ne stacchiamo mai, ed è il cellulare, attraverso le chat e i social (che poi si espandono con tablet e tv), che segna il tempo, le decisioni, ma soprattutto ci proietta dentro la religione dell’immediatezza, dove tutto deve avvenire subito e deve essere immediatamente giudicato e ci porta ad amare o – preferibilmente – a odiare. Senza studiare, senza capire: giudicare e basta. Subito.

2) La società dello spettacolo. È ormai divenuta la vera padrona di ogni cosa; non c’è nulla che funzioni – spiega il film - se non viene detto nella maniera giusta, con la battuta giusta, con lo sguardo giusto o con la smorfia giusta e nel momento giusto; e ogni valore diventa solo una gara a premi, dove vince chi offre lo show migliore, dove la performance è ciò che conta al di là di qualsiasi contenuto; così la dottoranda che urla in tv “moriremo tutti!” viene travolta dai meme e dalle derisioni sui social e infine isolata dalla società, mentre il professore Di Caprio che appare meno categorico e tragico diventa lo scienziato interessante: ed è sul suo fascino che si sposta il dibattito.

3) La divisione globale e la polarizzazione delle opinioni. Perché la connessione perpetua dentro le regole della società dello spettacolo (talk show e talent insegnano) porta a una divisione necessaria (c’è il pro e il contro su qualsiasi cosa, anche se il contro vale meno dell1% o anche se non ha alcuna valenza scientifica). E la divisione richiede anche una “auto-affermazione”, perché nel mondo dei social commentiamo tutto oppure leggiamo tutti i commenti. E giudichiamo pure quelli, con lo stesso metro: tutti.

A questi punti possiamo agganciarne altri tra cui, ad esempio, la perdita di fiducia nella scienza, o addirittura nella ragione. Oppure il ruolo debordante dei Ceo dei colossi tecnologici, che nel film si incarna nella figura di Peter Isherwell (interpretato da Mark Rylance), idealizzato dalle masse e dalla politica al punto di sembrare molto più che un santone, un mahatma, il vero guru tecnologico, a metà fra Steve Jobs e Mark Zuckerberg, l’unico legittimato a decidere sulla convenienza e sulla sopravvivenza dell’umanità. Oppure – tema dei temi - l’individualismo così spinto per cui ogni cosa che non si accorda con il nostro “piacere” diventa “dittatura che toglie libertà”, mentre forse è soltanto il rifiuto di sacrificare qualcosa per il bene comune.

Ecco. Il bene comune, guardando il film, sembra proprio scomparso. Riappare solo nella cena fra parenti, amori e amici poco prima della fine, mentre Di Caprio afferma: "Il fatto è che avevamo davvero tutto, non è così?".

Un film troppo americano? Esageratissimo? Lontano da noi? Assolutamente no. Basti pensare al generale che si intasca 30 dollari dagli snack gratis della Casa Bianca e che fa chiedere alla dottoranda protagonista del film: “Ma perché l’ha fatto?”. Una domanda senza risposta che appare poi non così lontana da vicende anche locali – per esempio - di rimborsi spese richiesti da consiglieri provinciali per dei viaggi istituzionali fatti gratuitamente. Ecco perché, in un baleno, si capisce che il film ci è vicinissimo seppur ridondante. Perché siamo noi ridondanti.

Al di là del giudizio sul film, rimane comunque tanta amarezza. E la sensazione finale è che ormai stia diventando impossibile restare neutrali e che sia altrettanto impossibile costruire un racconto comune, perché c’è sempre l’anti-storia, anche nel giudizio al film. Don’t look up.

p.mantovan@altoadige.it













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