PAESAGGIOSENZA (TROPPI)  UMANI 

Paesaggio senza umani di Paolo Di Paolo, edito da Feltrinelli, che ha corso per il premio Strega 2024, è un titolo che dapprima mi ha attratto, pensando di poterlo annoverare fra quei romanzi in cui...



Paesaggio senza umani di Paolo Di Paolo, edito da Feltrinelli, che ha corso per il premio Strega 2024, è un titolo che dapprima mi ha attratto, pensando di poterlo annoverare fra quei romanzi in cui lo storytelling non è il punto essenziale, e dove per contro hanno maggior peso elementi come il paesaggio, la voce e la struttura (il dialogo interiore come motore della narrazione). Penso all’Handke di “Lento ritorno a casa” (Handke è evocato infatti da un esergo), che non ha paura di sfidare la noia del lettore.

Tuttavia con il prosieguo della lettura devo confessare che le mie aspettative sono state soddisfatte solo in parte.

Protagonista e narratore del romanzo è Paolo Barbi, che ha dedicato la vita allo studio del congelamento del lago di Costanza, avvenuto nella seconda metà del XVI secolo, un episodio eclatante della cosiddetta “piccola glaciazione”, come anche il congelamento del Tamigi di cui parla Virginia Woolf (anche lei citata in esergo) nel suo “Orlando”.

Barbi, ad un certo punto della sua vita, afflitto dalla crisi di mezza età e dal fallimento delle sue relazioni, decide di tornare al lago, con motivazioni che si chiariranno meglio solo nel finale (la parte più riuscita del romanzo, secondo me). In ogni modo, non deve consultare biblioteche o centri di ricerca, diciamo che il suo è un pellegrinaggio sentimentale.

La struttura del racconto di viaggio, degli incontri che lo scandiscono, dei luoghi attraversati, è tipica dei romanzi “on the road”: le tappe di susseguono, ognuna perlopiù autosufficiente, conclusa in sé. A fare da contrappunto, una serie di aneddoti relativi al periodo del congelamento del lago, in gran parte tragici: persone che hanno cercato di attraversarlo per recarsi da un punto all’altro delle sue sponde e sono scomparse, vuoi per il sopraggiungere della nebbia, o della notte, vuoi perché la superficie li ha traditi.

Il tema della Storia, con la esse maiuscola, si riflette in quello della storia personale del protagonista. Di cui il nostro uomo cerca invano di recuperare il filo, ad esempio rispondendo a mail ricevute quindici anni prima, o facendo visita a persone uscite da tempo dalla sua vita. “I want an axe to break the ice”, voglio un’ascia per rompere questo ghiaccio, per dirla con il Bowie di Ashes to Ashes (che cita Kafka).

Gli ingredienti del libro, come si vede, sono molti. E però: il mestiere dello storico fin dai tempi di Tucidide è costellato di interrogativi; nessuno di questi sembra interessare veramente il protagonista. Così come il tema del cambiamento climatico, evocato dal congelamento del lago, che essendo visto in maniera speculare al dibattito odierno (oggi si parla di riscaldamento globale, non di glaciazione), potrebbe aprire la strada a qualche considerazione anche provocatoria, sulla fondatezza delle nostre convinzioni attuali. Mentre l’intervista che Barbi rilascia a una tv serve soprattutto a ribadire la superficialità dell’approccio massmediatico contemporaneo, di cui siamo, ahimé, ben consapevoli.

Rimane il confronto fra il viaggiatore e il proprio passato, irrisolto e costellato di “vite non colte”. Se ciò che resta e che ci segna per sempre è fatto di materia così eterea, usurata e scarsamente modificabile a posteriori come i ricordi altrui (e senz’altro è così), risulta comprensibile il sentimento di spaesamento e angoscia che l’autore evoca fin dal titolo, amplificato dalla malinconia del paesaggio lacustre.















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