LIBRI

Perché rileggere “L’affaire Moro” di Sciascia 



Oggi che del caso Moro si è detto, scritto, e girato (nel senso filmico del termine) di tutto e di più, al punto che gli scrittori devono ricorrere senza tema del ridicolo ad artifici un po’ improbabili per cavarne fuori qualcosa di nuovo, fa un po’ impressione ritrovarsi fra le mani “L’affaire Moro” (Sellerio, Adelphi), un pamphlet scritto a caldo da Leonardo Sciascia nel 1978.

Innanzitutto, si riscoprono personaggi della vita politica di allora oggi del tutto dimenticati, come l’on. Taviani, che Moro squalifica in una delle sue lettere, arrivando a suggerire che sia, per così dire, al soldo di americani e tedeschi, i quali, insinua, potrebbero non volere la sua salvezza. In secondo luogo, l’attenzione non può non cadere sui giudizi a volte sferzanti espressi da Scascia stesso, in particolare quel suo negare a Moro la qualifica di “grande statista”, che all’epoca nessuno gli rifiutava. No, dice Sciascia, Moro non è stato un grande statista. È stato l’incarnazione del pessimismo meridionale, questo sì, è stato un uomo che forse ha capito la natura della DC e per estensione degli italiani, ed è stato un uomo profondamente annoiato, nel senso nobile del termine, aggiungiamo per chiarezza (un po’ di quella noia esistenziale, di quella vanitas, deve averla provata persino nel covo delle BR, dice lo scrittore siciliano).

Ma, e qui sta l’importanza del libro, Sciascia sostiene anche che Moro era intelligente, acuto, ed era a suo modo un combattente rimasto fino all’ultimo aggrappato alla vita, demolendo la tesi, che allora andava per la maggiore, a destra come a sinistra, secondo la quale le sue molte lettere fossero il frutto delle vessazioni subite durante la carcerazione. Da qui all’analisi delle lettere suddette, che secondo Sciascia contenevano messaggi criptici, anche nei loro passaggi più discussi, che spettava agli interlocutori, in primis democristiani, ma non solo, decifrare. Per esempio, l’allusione ad un presunto interesse degli americani (e di parte del mondo politico italiano) a lasciarlo morire: secondo Sciascia poteva essere, anche, il tentativo di instillare il tarlo del dubbio nei suoi carcerieri, che in un’altra lettera ha definito “combattenti”, non terroristi, quindi in qualche modo legittimandoli.

Leggere questo libro (più volte ripubblicato dopo l’edizione originale, anche con aggiunte) oggi significa fare un viaggio nel tempo. E questi viaggi sono affascinanti, anche se contengono digressioni letterarie ormai fruste (Pasolini, Cervantes, Borges). Secondo chi scrive significa però anche dover constatare che alla fine la linea della fermezza, per quanto crudele, cinica e forse poco cristiana, pagò. La morte di Moro non ha causato nessun danno epocale allo Stato, alle istituzioni e alla politica (fatta salva la strategia del Compromesso storico, che con Moro morì, e ovviamente questo non è un dettaglio). Per le BR rappresentò invece l’inizio della fine. Dopo di allora quasi nessuno, credo, poté più dichiararsi a cuor leggero “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”.

Sciascia in ogni caso in queste pagine stigmatizza con un sarcasmo memorabile la “statolatria” che all’epoca fece escludere categoricamente la possibilità di un accordo con le BR, a differenza di quanto avevano fatto altri Stati in circostanze analoghe (come più volte ricordato nelle sue lettere lo stesso Moro). “Lo Stato è vivo, forte, sicuro e duro (non accettando la trattativa con i terroristi ndr). Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi…”.

 













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