La storia

Quando Mike Bongiorno raccontò al lager di Bolzano la sua storia di internato

Era il 15 giugno 2004, parlò davanti al muro del Durchgangslager. La scelta della Resistenza, l'arresto da parte della Gestapo. La detenzione nel campo di Bolzano e poi nei lager in Austria. Fu testimone d'accusa contro Misha Seifert, la SS ucraina condannata all'ergastolo. Diede anche un generoso contributo per il restauro del muro di cinta del campo di concentramento di via Resia. "Sono un miracolato. Non posso dimenticare"


Luca Fregona


BOLZANO. Appoggiò la mano destra al muro tinto di fresco, chinò la testa e l’appoggiò al muro come a caricarsi il dolore di undicimila fantasmi. Le lacrime gli scendevano sotto gli occhiali scuri come grosse gocce di pioggia. Poi disse: «Ero già venuto qualche anno fa a cercarlo. Ma nessuno mi seppe dire dov’era, il lager...». Era il 15 giugno del 2004: Mike Bongiorno arrivò a Bolzano insieme al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per celebrare il recupero dei resti del campo di via Resia. Un luogo finalmente riconsegnato alla memoria della città, e non solo. Gli chiesero di dire qualcosa. All'inizio si ritrasse, poi tenne un lungo discorso. C’era un sacco di gente che voleva solo stringere la mano a Mister Rischiatutto. Ma anche ex internati che parlavano la sua stessa lingua, e che si portavano addosso gli stessi ricordi e la stessa rabbia silenziosa.

Bongiorno si rivolse ai giovani. Li invitò a non perdere mai il coraggio, disse, “per difendere il bene più prezioso: la libertà”. Raccontò di quando venne catturato dalla Gestapo. Pensava di finire fucilato o ucciso a bastonate da un momento all’altro. «Avevo appena vent’anni». Nei giorni di prigionia a Bolzano sapeva che si preparava un lungo periodo di orrore e sofferenza. «Eppure - disse - non persi mai la speranza». Fu una giornata lunga quella del 15 giugno 2004: Bongiorno, dopo via Resia, volle partecipare alla presentazione in Comune della ricerca di Dario Venegoni «Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano», prendendo ancora la parola.

In questi giorni tv e giornali sono pieni di pezzi su di lui per i 100 anni dalla nascita. Ma in pochi ripercorrono una storia che lo segnò profondamente. Michael Bongiorno, nato a New York il 26 maggio 1924, passaporto americano, arrivò giovanissimo in Italia per frequentare il liceo a Torino. La guerra gli fece scegliere la parte giusta: la Resistenza. Perfettamente bilingue, fece da collegamento tra gli alleati e i partigiani. Nell’aprile 1944 i servizi Usa gli consigliarono di riparare in Svizzera, ma i tedeschi bloccarono il suo gruppo di "ribelli" nel Novarese. Il passaporto americano risparmiò a tutti l’esecuzione sul posto. Bongiorno passò nelle mani della Gestapo. Finì a San Vittore. Due mesi isolamento.

"Feci molti mestieri a San Vittore - ricordava in un articolo pubblicato dalla Domenica del Corriere nel 1960 - , dopo i sessantaquattro giorni di isolamento: il materassaio, il lavandaio, l'infermiere, lo scrivano e persino il pulitore di quegli immondi recipienti che si chiamano «boglioli», quello che in gergo si chiama scopino".

Nell'infermeria del carcere è ricoverato Indro Montanelli, arrestato dai nazi-fascisti nel febbraio del ' 44 insieme alla prima moglie, Margarethe Colins de Tarsienne, nobildonna di ceppo austriaco nata a Rovereto. Mike e Indro diventano amici. Montanelli gli affida le lettere da far avere alla donna nella sezione femminile.

A fine settembre, lo caricano su un camion destinazione Bolzano. Un viaggio interminabile a bordo di un autocarro Lancia 3Ro: «Dovevamo fermarci ogni momento: gli aerei degli alleati ci bombardavano». Dopo due giorni, l’arrivo in via Resia e «tutti quegli uomini e donne ridotti a scheletri, messi in fila davanti Misha». Misha Seifert,  il boia, la SS ucraina condannata all’ergastolo nel 2008 per un’orrenda catena di omicidi (Bongiorno fu testimone d’accusa al processo al Tribunale Militare di Verona).

«Mi sembra di rivederlo Misha - ricordò -: corporatura robusta, il naso schiacciato, la fronte squadrata come quella di un bulldog suonato, la pancia da birra, lo sguardo cattivo. Mi mise in isolamento in una di quelle celle che si vedono nelle foto storiche del campo. Un incubo: venivo già da 68 giorni di isolamento a Milano. Avevo una fama nera».

Seifert gli assegna il triangolo azzurro, quello dei militari nemici. «Dopo una decina di giorni, venne a prendermi un ufficiale della Gestapo che mi scortò a Innsbruck, dove c'era un altro lager. Era in collina. Ricordo prigionieri in condizioni disperate; ebrei che per punizione furono fatti correre con una pietra al collo. Venni accolto con una scarica di calci. Le guardie erano donne, alte, robuste, con gonne lunghe e stivaloni. Le mie cose erano in un sacchettino: una di loro lo svuotò, mi obbligò ad inginocchiarmi e raccoglierle a quattro zampe. Poi l’ultimo trasferimento in un KZ vicino a Villach. Il significato del pezzo di stoffa azzurra lo compresi, quando, a gennaio del 1945, mi chiamò il comandante. Mi disse che ero ein glücklicher Mann, un uomo fortunato: il mio nome era in testa alla lista di scambio di prigionieri. Il Dipartimento di Stato americano si era dato da fare per tirarmi fuori da lì. Otto di noi per otto nazisti. Pesavo poco più di trenta chili».

Bongiorno venne caricato su un camion della Croce rossa insieme ad altri prigionieri gravemente mutilati dalla guerra e dalle sevizie. «Un viaggio allucinante in mezzo a quei corpi martoriati sul cassone che ballava. A Marsiglia venimmo imbarcati su una nave svedese. Raggiunsi New York e mi chiesero di raccontare alla radio la mia storia. Da lì nacque la mia carriera. Non dimentico mai di essere un miracolato. E chi non ce l’ha fatta».

Nel 2005 diede un generoso contributo per il restauro di altri pezzi del muro di cinta del campo di via Resia. Non lo disse a nessuno.

 













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