La storia

Quei ragazzacci di Don Bosco: «Noi, amici da ottant’anni» 

Bolzano. Erano ragazzini durante la guerra e adolescenti durante la ricostruzione. Nati e cresciuti tra le Semirurali e le case dei ferrovieri, il racconto vivo e unico di una città in macerie che voleva risorgere


Luca Fregona


Bolzano. Zampedri? Presente! Galante? Presente! Trappoli? Presente! Ninno? Presente! Dal Ri? Presente!. E ancora: Furlan, Schluderbacher, Pittino, Saltuari... «Bene ci siamo tutti. Ora a tavola». Franco Scomparin ha chiuso l’appello. Li ha invitati da Alexander in via Aosta per festeggiare il suo compleanno. Ne fa 85. Lui è il bocia. Il più giovane. Il resto della truppa va dagli 87 ai 91. Ragazzi nati prima della seconda guerra mondiale, dal ’33 al ’39. Cresciuti tra le stradine delle Semirurali e piazza Pontinia (oggi Don Bosco).

Figli di operai, saldatori, meccanici, ferrovieri, marescialli e poliziotti. Figli di mondine, cuoche, governanti, sarte, donne delle pulizie. Di gente povera, abituata a lavorare duro, arrivata dal Veneto, dal Friuli, dal Mantovano, sull’onda dell’italianizzazione mussoliniana. Bambini, all’epoca, che avevano poco niente. I calzoni corti anche d’inverno, le scarpe di rimessa ereditate dai padri e dai fratelli più grandi.

Fatti due conti, si conoscono da più di ottant’anni. Hanno visto i panzer tedeschi occupare Bolzano, e la città distrutta dalle bombe. In quella città operaia, di macerie, rovine, fame e polvere hanno vissuto la ricostruzione e l’adolescenza. «Gli anni più belli - dicono in coro - Gli anni della giovinezza». Ed è lì - sui campi di terra battuta degli oratori e su quelli di ghiaia del Talvera - che è nato un legame che resiste ancora oggi. Cementato dal calcio, dall’hockey, dallo sci, dalla bicicletta. Dall’adorazione per i miti di quegli anni: Coppi, Bartali, Kobler, Valentino Mazzola, Pietro Ferraris...

Lo sport, per loro, è stata la chiave per l’emancipazione, per azzerare le classi sociali, sognare, lasciarsi la guerra alle spalle, guardare avanti e puntare in alto. «Dobbiamo ringraziare don Italo Tonidandel - dice ancora oggi riconoscente Bruno Zampedri, classe 1937 - e tutti quei preti che a Bolzano hanno fondato le prime squadre di calcio tirando via dalle strade centinaia di ragazzi e bambini. E se dico centinaia so quel che dico, perché io ero uno di loro». Gli altri intorno fan sì con la testa. «Bravo Bruno». Parte una girandola di ricordi, immagini, battute, sfottò. Un rosario di nomi, date, luoghi. Che qualcuno immancabilmente corregge dando del rincoglionito a qualcun altro. Un casino di voci che si sovrappongono. Di inviti ad alzare il volume “perché non ghe sento, zio can”. Di risate, brindisi, discorsi che partono e restano a metà cancellati da altri ricordi, da altre battute, da altre “precisazioni”. Un casino che neanche alla pizzata di quinta elementare. E ha voglia Franco Scomparin - sornione - a dire che ha ordinato “un menù per anziani, (risottino ai finferli, scaloppina e puré), perché a una certa età bisogna star leggeri e non esagerare”. Sarà... Ma tutti fanno il bis. E le bottiglie di Teroldego volano più veloci che al Winefestival.

La via del calcio

Qua, intorno a questo tavolo, c’è un pezzo di storia della comunità italiana. C’è, soprattutto, un gruppo di amici. “Da una vita”, non è tanto per dire. Si conoscono da quando, di anni, ne avevano sette, otto. Lo sport - ribadiscono - era tutto. Passione, amicizia, riscatto e redenzione. Zampedri riprende il concetto: «Immaginatevi una Bolzano di mocciosi poveri, tipo i ragazzi della via Pahl, senza una lira, coi vestiti rattoppati, magari senza scarpe e con le pezze ai piedi nere di polvere e fango secco. I genitori in fabbrica a spaccarsi la schiena. È stato don Italo ad accendere la lampadina con l’Aurora Don Bosco. A valanga, ogni oratorio ha creato la sua squadretta. E se non era l’oratorio, era il bar. E se non era il bar, erano le fabbriche a comprare scarpini e casacche...». Partono i nomi delle squadre che si battevano all’ultimo sangue nel campionato ragazzi. La Bolzanese. L’Aurora Don Bosco (che poi si fonderà con la Virtus). La Lancia. La Giac, acronimo di Gioventù italiana azione cattolica. La scudocrociata Libertas (nel senso che era legata a filo doppio con la dc). Il Dopolavoro ferroviario. I Piani...

Sandro Saltuari, apneista e sub, 90 anni appena compiuti con un tuffo nel lago di Monticolo, ha iniziato con i pulcini del Bolzano: «Quando il Bolzano giocava in serie B. I campi del Talvera erano di terra battuta, sassi e ghiaia: quando cadevi erano dolori. Ma a noi non importava. Niente era più bello di quelle giornate infinite spese a dare calci a un pallone. Ogni fazzoletto della città sgombero di macerie e di bombe da disinnescare diventava un piccolo San Siro. Con noi a correre sotto gli occhi dei grandi».

Interviene Gino Galante, stella della Virtus negli anni d’oro (“tra i più forti centromediani della città”, sottolinea Scomparin): «Io ho iniziato con il Gardenia. Era il ’46/’47. Proprio così - Gardenia - si chiamava. Era il nome della trattoria, una baracca di via Genova, che ci faceva da “sponsor”. Che poi, sponsor... una gazzosa e un panino con la mortadella il giorno della partita. Il proprietario Olindo Guidi era anche il nostro allenatore, ci dava quello che poteva. Per il resto dovevamo arrangiarci. Le scarpette, ad esempio, ce le facevamo in casa. Recuperavamo scarpini vecchi e ci attaccavamo i tacchetti con i chiodi. Ci allenavamo tutti i pomeriggi, e - cascasse il cielo -nessuno mancava l’appuntamento». Annuisce Bruno Furlan, 91 primavere: «Quando venivi sostituito passavi gli scarpini a quello che entrava. Una volta giocammo contro il Bolzano al Druso. Aveva piovuto, c’era il fango alto due spanne. Finimmo la partita incatramati di melma dalla testa ai piedi, ma l’accesso alle docce era vietato a noi di Shangai. Potevano usarle solo quelli del Bolzano». Il Gardenia durò appena due anni. «Ma è stata un’esperienza fondamentale per la nostra formazione. Non ringrazierò mai abbastanza Guidi per quello che ha fatto per noi - riprende Galante - . Sento ancora il sapore di quel panino alla mortadella...».

Il pallone sacro

C’era poi la questione del pallone “comunitario” per giocare in strade, vicoli e cortili. «Era più prezioso dell’oro. Andavamo in piazza Mazzini dove c’era una specie di discarica del vetro: la gente buttava bottiglie, finestre, parabrezza sfondati, roba così. Tiravamo su tutto e lo portavamo in zona industriale dove ce lo pagavano. Con quei soldi andavamo da Scalet in via Argentieri e compravamo il pallone di cuoio cucito a mano e chiuso con le corde». Un oggetto sacro. Galante, evidentemente ritenuto il più affidabile tra le casette di via Brescia, lo aveva in custodia. «Di giorno si giocava tutti insieme, la sera, lo ungevo con il grasso e lo mettevo al sicuro sotto la coperta. Quel pallone, per noi, era tutto».

I guanti del portiere

Franco Scomparin, gran maestro di cerimonia, - a tradimento - gli mette una foto in bianco e nero sotto il naso. Cinque ragazzi con i calzoni corti. Al centro c’è Galante. Sputato a oggi, se non fosse per i capelli canuti e i baffi che da ragazzo non aveva. Lui si commuove: «Semirurali, via Brescia, davanti a casa mia, 1948, avevamo tutti 14 anni». Da sinistra a destra. «Questo è Giorgio Palmino, poi Coianiz e Benito Franzoso. L’ultimo con la bici è Vincenzo Ferraresi. Vincenzo era il più ricco, sua mamma faceva la sarta. Era l’unico ad avere una bicicletta, una Bottecchia da corsa. Un ragazzo estremamente intelligente e generoso. Di questa foto siamo rimasti solo io e lui. È stata scattata sicuramente di domenica. Ogni domenica veniva in via Brescia da via Cagliari e ci faceva usare a turno la Bottecchia. Eravamo poverissimi, ma sono stati anni bellissimi». Il tavolo si zittisce. «In questa foto - prosegue - manca un nostro amico carissimo, Ferruccio Angeli. Faceva il panettiere. Di notte lavorava, la mattina veniva a giocare al calcio direttamente dalla bottega. Era un portiere eccezionale... Il primo portiere con cui ho giocato quando sono passato alla Virtus nel ’50. Lo ha ucciso un cancro giovanissimo».

Bruno Zampedri tira fuori un’altra foto seppiata. È stato lui a prendere il posto di “Uccio” tra i pali. «Vedi la maglia che indosso? Era la sua. L’ho portata per tutto il campionato. Per averlo in campo con noi, contro quella morte ingiusta». Il papà di Zampedri, Dario, era il temutissimo comandante della polizia municipale di Bolzano. Un pezzo d’uomo che solo a vederlo scattavi sull’attenti. «Non avevo i guanti da portiere, allora gli fregavo i suoi da vigile. Belli spessi, neri, di cuoio, perfetti. Lui si incazzava, ma sotto sotto era orgoglioso». Anni dopo quando il Cagliari mette gli occhi sul figlio ancora minorenne, Dario non ci pensa un secondo a firmare il contratto. «Ci voleva però il consenso di entrambi i genitori - racconta Bruno -. Mia madre non lo diede, aveva paura. Così restai a Bolzano. Chissà come sarebbe andata...». La domanda resta nell’aria, spazzata via da un altro robusto giro di Teroldogo.

Quelli di via Fiume

Al tavolo non c’è però solo Don Bosco. «Noi, figli di ferrovieri, abitiamo ancora oggi nelle stesse case di via Fiume dove siamo nati e cresciuti» dicono Renato Trappoli e Mario Dal Rì, entrambi novantenni. Intendono le palazzine liberty costruite dalle Regie Ferrovie negli anni Venti per macchinisti, operai, controllori. «Il battesimo del pallone - racconta Dal Rì - lo abbiamo avuto sul campetto del Dopolavoro ferroviario di via Crispi. Ma il calcio non ci bastava. Che fosse l’hockey, il biliardo, il salto in alto... volevamo provare tutto. Era la sfida con gli altri quartieri, ma anche l’ambizione di diventare qualcuno. E visto che rispetto agli standard dell’epoca ero bello lungo, mi hanno infilato anche nella squadra di pallacanestro. Giocavamo su un campo ricavato da un terreno crivellato dalle bombe. Al campionato partecipavano la Lancia, la Fiamma, il Savoia e il Rangoni. Da queste squadre sono emersi dei veri campioni: il più grande di tutti è stato Marietto Veneri, figlio di ferroviere: lo ha preso la Virtus Bologna in serie A».

Renato Trappoli a Bolzano è un’istituzione: per trentacinque anni ha allenato i ragazzini della Virtus Don Bosco. Primi calci, pulcini, esordienti. «Quelli più grandi no, perché non sopporto l’arroganza di chi non ascolta. Quando pensano di essere Maradona, credono di potersi permettere tutto», dice severo aggrappandosi alle grucce. «Grandi soddisfazioni le ho avute con il calcio femminile. Siamo stati tra i primi a crederci».

Anche Mario Ninno, battuta pronta e implacabile, è un’istituzione del calcio cittadino. Torna per un attimo agli anni della guerra. «Nel ’45 eravamo sfollati a Castel Roncolo - racconta -, avevo 11 anni. Ricordo la lunga fila di carro armati, sidecar e blindati tedeschi che battevano in ritirata verso il Brennero. Erano soldati stanchi di combattere con mimetiche logore e barbe sfatte. Con noi bambini però erano gentili...». Per Ninno l’approdo decisivo è stato alla Virtus Don Bosco. Giocatore, allenatore, dirigente, anima negli anni ottanta e a seguire del torneo “Città di Bolzano”. Sergio Pittino, il più giovane della compagnia insieme a Scomparin, si è fatto invece le ossa nel “Lancia”. «Nel ’63/’64, dalla prima categoria siamo arrivati a tanto così dalla promozione. Ce la giocavamo con la Virtus e il Passirio. Quante botte sul campo, specialmente nelle valli...».

Un capitolo a parte merita Niels Schulderbacher, l’unico “tedesco” della banda. «E anche l’unico tedesco bolognese - scherza lui -. Sono nato nel ’36 a Bologna, e ci ho vissuto fino ai 5 anni. Mio padre Ludwig aveva una rivendita di utensileria in piazza della Libertà». Il padre, dopo la guerra, torna a Bolzano, fonda una sua azienda e apre un negozio prima in via Renon e poi in Corso Italia. Niels bazzica piazza Matteotti, via Milano, Don Bosco: intercetta quei ragazzi italiani innamorati di sport come lui. È uno sciatore fortissimo e, soprattutto, uno dei primi giocatori dell’Hockey Bolzano. «Giocavamo ovunque si potesse “tirare” un po’ di ghiaccio, anche dietro via Torino». Franco Scomparin gli vuole molto bene, ha lavorato con lui per trent’anni nel negozio di Corso Italia. «Mi ha portato a La Scala - racconta - e mi ha insegnato a stare al mondo. Era il mio capo, è diventato un carissimo amico». Niels sorride.

Scomparin tira fuori la sua personale bibbia e la fa girare: una raccolta di tutti gli articoli pubblicati dal nostro giornale sulle Vecchie Glorie, Virtus ovviamente. «Il legame che ci lega è fortissimo. E come diceva Boskov: “La partita non è finita fino a quando arbitro non fischia il 90esimo” ».

Intende, Scomparin, la vita e l’amicizia. L’arbitro è nostro Signore, padrone del tempo che ci resta. Qualcuno si sfiora garbatamente gli zebedei alzando gli occhi al soffitto. Ma è solo un attimo: tutt’intorno riparte in un lampo la ruota rumorosa dei ricordi.

 













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