LA STORIA

Rencio, dopo 75 anni finisce la favola del bar a forma di nave

Chiude il “Bar Mario”, un locale storico, punto di riferimento per i rioni Piani e Rencio. La sua storia era stata raccontata in un docu-film premiato in numerosi festival europei. Era stato aperto nel 1945 da Paolo Fronza, un ex marinaio. La figlia Marina lo gestiva dal 1975: «Ho il cuore spezzato ma dopo la morte di mio marito e quest’anno difficile, non avevo scelta»


Luca Fregona


BOLZANO. «Il primo cuore l’ho lasciato quando è morto mio padre. Il secondo quando è morto Roberto, mio marito. Il terzo, l’ultimo che mi è rimasto, non posso permettermi di perderlo: ho un figlio fragile da accudire. Chiudo l’attività ma il bar non lo tocco. L’insegna è stata tolta, ma dentro resterà così com’è, anche con le serrande giù». Resteranno il tetto a forma di tolda con il timone e il pozzetto, le finestre a oblò, le banconote arrivate da ogni angolo del mondo in mostra sulle pareti. Resteranno il binocolo, la campanella di bordo e il sestante, la cambusa e il cielo stellato sopra coperta. «Non toccherò nulla. Sarebbe come infilarmi un coltello nell’ultimo cuore che mi è rimasto. I muri sono miei e non devo niente a nessuno». Marina Fronza ha 60 anni, li ha passati tutti qui dentro. È forte, indomita, passionale. È la titolare del bar a “forma di nave”. Il Bar Mario aperto dal padre Paolo, 75 anni fa in via Brennero 22, sul confine tra i Piani e Rencio. La storia di questo approdo accogliente è stata raccontata nel 2017 nel bellissimo (e pluripremiato) docu-film del regista Stefano Lisci, che frequentando la scuola di cinema Zelig lì accanto, era diventato a tutti gli effetti un membro dell’equipaggio, uno di famiglia.

Gli ultimi due anni sono stati molto duri per Marina e suo figlio Paolo. Il marito Roberto Volpato, il “cuoco di bordo”, capace di stemperare con una battuta o un piccolo regalo ogni tensione, è, come dice lei, “andato in cielo” nel giugno del 2019. Poi è arrivato il Covid. Lo stramaledetto virus ha prima colpito l’attività con l’altalena estenuante di restrizioni e chiusure, e poi - in novembre - ha aggredito Paolo e Marina. Centrati in pieno. «È stata molto dura: io ho eliminato i sintomi in fretta, ma Paolo è stato molto male per settimane, ancora non si è ripreso. Voglio ringraziare Christian Bacci e i volontari del Cacciatori di Briciole: sono stati eccezionali, portandoci la spesa tutti i giorni». Il Covid, le spese fisse che si accavallano, la quota 100 raggiunta che permette di maturare il diritto alla pensione: fatti due conti, a malincuore, Marina ha deciso di chiudere lo storico bar, ufficialmente da ieri, primo gennaio. «Sono rimasta sola. Paolo ha solo me. Devo combattere per lui, non farmi sopraffare dal dolore e dal rimpianto. E un lusso che non posso permettermi. Sono obbligata a guardare avanti».

A questo punto, per chi non lo conoscesse, bisogna spiegare che cos’è il Bar Mario. Non era un semplice bar, ma una “persona” in carne e ossa, un approdo con un’anima dolce e forte insieme. Un posto che non discriminava nessuno. Dove il Natale e il Capodanno si festeggiavano con i clienti. Perché dai tempi dei tempi, da quando il padre Paolo Fronza lo aveva preso in mano nel 1945, la regola era solo una: «Restare aperti quando chi è senza famiglia non sa dove andare». Come a Natale, appunto, quando la solitudine morde più di ogni altro giorno.

Uno di quei bar dove lasci una copia delle chiavi di casa nel caso resti chiuso fuori. Dove passi per l’ultimo giro dopo una giornata di lavoro. O per nasconderti da una vita che ti assedia. Un porto franco per clienti che sono diventati amici. Come Ester, l’amica dei cani e dei gatti. O Josef lo spazzacamino taciturno che danza tra i tetti di Rencio. O Roland, il collezionista di bottoni. O Robert che beveva il caffè solo alle 1.30 precise del pomeriggio, mai un minuto prima e mai un minuto dopo. O Toni, Gianni, Luis, i ragazzi della Zelig... Che fine faranno tutte queste storie, tutte quelle facce? «I mesi del Covid - dice Marina con la voce spezzata - ci hanno portato via persone care, altre non le abbiamo più viste per le misure di sicurezza e i timori reciproci. Ma per gli amici e le amiche di sempre, la porta resta aperta. E la macchina del caffè è sempre lì, accanto alla “macinacaffè”...». È addolorata Marina. «Mi hanno chiesto: perché non lo affitti? Mi hanno detto: dallo a un altro, non puoi tenere chiuso l’unico bar della zona. Quasi a rimproverarmi. Come se questo posto non avesse un’anima. Come se fosse indifferente chi trovi dietro il bancone. Uno schiaffo a me, a Roberto, a mio padre. Io non affitto il mio cuore. Non metto in vendita i miei affetti più cari e profondi. Non posso più gestirlo? Ok, fa niente. Resta tutto così com’è. Ma nessuno prenderà il mio posto...». Nessuno potrà sporcare queste mura, il ricordo, gli affetti, la memoria.

Il bar dentro casa

Che il bar sia nel sangue della famiglia Fronza, lo dimostra il fatto che dal locale si entra direttamente in casa. Solo una porticina nera a dividerli. E a un tavolo del bar, i Volpato-Fronza pranzavano e cenavano. In mezzo ai clienti. Prima del Covid e con Roberto ancora accanto, Marina apriva alle sei di mattina e tirava giù la serranda alle 8 di sera. Chiudeva solo la domenica. «Per riposarmi. Ma non vedevo l’ora che fosse già lunedì, mi divertivo troppo». Il bar Mario era una famiglia allargata. La clientela “naturalmente” mista. Italiani e tedeschi. Giovani e anziani. Tanti bambini. Sul calendario dell’Alto Adige, Marina annotava di anno in anno il compleanno di ognuno. E quando toccava a te, c’era sempre un pensiero.

Magari uno scherzo, uno di quelli che ti fanno venire un colpo: la sigaretta che esplode, la penna-petardo, la brioche che sembra vera ma è di plastica. Il gioco era l’anima di questo posto. Un’anima ereditata dal padre Paolo.

Un bar a forma di nave

Quando parla del papà, a Marina si spezza la voce. Un padre molto amato non lascia mai i suoi figli. Nemmeno da morto. Lui, forte come un toro, mai un raffreddore, è morto all'improvviso nel 1975. Infarto. All’ingresso del Bar Mario c’è una sua foto bellissima: lui stretto nel giaccone blu da marinaio, che scruta il mare per l’ultima volta prima del congedo. Sembra Corto Maltese. Undici anni di naia in «Marina» a cavallo della seconda guerra mondiale. Innamorato del mare e della “cresta delle onde”. Dentro il Bar Mario, tutto parla di lui e del mare. Un bar pensato a forma di nave. Organizzato come una nave.

Con le finestre a forma di oblò, il timone, la campana di bordo e la chiglia. Quando Paolo Fronza torna a Bolzano nel 1945, il locale è già aperto. La famiglia si era trasferita alcuni anni prima da Trento. Al banco c’era la mamma Maria. Il bar si chiamava come lei. Ma siccome sotto i Portici c’era già un “Caffè Maria”, Paolo decise di trasformare la “a” finale in una “o” . Così nasce il Bar Mario.

«La cosa divertente, è che ancora oggi c’è chi crede che “Mario” esista davvero e mi chiede di passarglielo al telefono...». Alla morte della madre nel 1954, Paolo prende in mano il bar. È un omone con i baffi, e un cuore grande. Gli piace scherzare. Spesso mette un tavolino in mezzo alla strada che sale a Rencio, si versa un Cynar e imita Calindri. «Contro il logorio della vita moderna», dice con la voce impostata, e tutti si ribaltano dalle risate. Perché il suo bar lo vuole così: un’isola, una Tortuga che nasconde i pirati, i proletari, quella dalla parte “sbagliata”. Dove tutti si sentono a casa: i contadini di Santa Maddalena, i ferrovieri degli orti e gli operai che la sera rientrano ai Piani dalla Zona industriale. Gli studenti che giocano a biliardo, le mamme coi bambini e i militari in libera uscita della caserma Gorio. Alle pareti appende le banconote che i clienti gli portano da tutto il mondo. Ogni volta gli raccontano una storia legata a un viaggio o a un amore (inevitabilmente) finito male.

Roberto il cuciniere

A metà degli Settanta, dopo la morte del padre, il timone passa a Marina e alla madre Giustina, che tutti a Rencio chiamano Tina. Marina intanto ha conosciuto Roberto, occhi azzurri e battuta pronta. Sarà l’uomo della sua vita, nostromo e primo cuciniere. Roberto è burbero, timido, ma anche un uomo molto buono, ironico e affettuoso. Negli anni del blaun di massa, il Bar Mario è una delle tane preferite dagli studenti bolzanini. Per due motivi: ha il biliardo, ed è imboscato. E siccome al Bar Mario niente può essere normale: il biliardo pende. E allora tra i ragazzi invece di dire “facciamo blaun”, entra nel gergo «andiamo al “bar Pendenza”». La cosa è talmente risaputa che un giorno Marina si vede piombare nel locale un preside con codazzo di docenti alla ricerca dei “fuggitivi”. «Le mamme a una certa ora chiamavano direttamente qui chiedendomi di spedire i figli a casa...».

Di Paolo in Paolo

Il 30 aprile 1981 nasce Paolo. I nomi a questo punto della storia sono importanti. Lei si chiama Marina perché il padre amava il mare. Il piccolo si chiama Paolo in omaggio al nonno che non c’è più. Paolo è un bambino speciale, ha bisogno di cure e attenzioni costanti. Un impegno che Marina e Roberto assolvono da subito con tenacia. A 17 anni dopo un’operazione alla schiena, Paolo finisce sulla sedia a rotelle. I medici dicono che non potrà più camminare. Mai più. Ma una donna così non è una che si arrende. Marina, un giorno, tagliandogli le unghie dei piedi, si accorge che muove un dito. Si aggrappa a quel segnale. I medici le dicono che no, non c’è speranza. Ma lei insiste. Ore e ore di fisioterapia, carezze, delusioni e incoraggiamenti. I clienti-amici la aiutano, reggono Paolo mentre cerca di mettere un passo dietro l’altro. E alla fine, dopo un anno, Paolo riprende a camminare. Paolo oggi ha sempre bisogno di Marina, ma ha una serie di angeli custodi in tutto il quartiere che vegliano su di lui. Gli piacciono i bei vestiti e i profumi. È un ottimo cuoco.

«Una cosa che mi intenerisce - dice Marina - è che ogni mattina quando si alza, parla con Roberto. Lui vede il papà. Gli chiede consigli su cosa indossare: se è meglio il maglione giallo o la camicia sui pantaloni blu o marroni. E poi, quando andiamo in cucina, e si mette ai fornelli, sbotta: “ecco, vedi?, lo dice anche papà che dobbiamo metterci più zenzero...”».

Roberto è qui, nella chiglia della nave, e così il nonno. «Vegliano su di noi e ci accompagnano verso un nuovo mare».













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