Triste tigre, nell’abisso a occhi aperti
Triste tigre di Neige Sinno (Neri Pozza, trad. Luciana Cisbani) è senz’altro uno dei romanzi del momento. A scriverlo è una donna, che ripercorre una storia di abusi subiti dal patrigno in un’età compresa fra i 7 e i 14 anni. A 19 la decisione, sostenuta dalla madre, di denunciare il suo stupratore, che finisce il carcere. Per Sinno l’inizio di una nuova vita, lontano dalla Francia, il suo paese natale, prima negli Usa e poi in Messico. Una nuova vita anche come scrittrice. Che non cancella quanto è avvenuto, anzi: perché la scrittura, in questo caso, scava, e domanda. Come è potuto accadere? Chi era l’uomo che ha abusato di lei? Cosa dice alla sua vittima, negli anni degli abusi? Come si giustifica? E la vittima, perché proprio lei? Ciò che ha creato l’agnello ha creato anche la tigre?
La mente del criminale, specie in casi come questi, è più interessante di quella della vittima, scrive Sinno. Ma la mente di quest’uomo, alla fine, non è così speciale. Presenta molte analogie con quella del protagonista di “Lolita”, il capolavoro di Nabokov. Si giustifica dicendo di amare. Dice anche che quello che sta accadendo alla bambina piace, anche se non l’ammette. A sorprendere in “Triste tigre” sono semmai i dettagli impazziti. L’uomo, il patrigno, ama la montagna, ha il culto dell’amicizia virile, si impegna al massimo nel soccorso alpino, guida le ambulanze. Non sembrerebbe il ritratto di un mostro, e infatti lui non si sente tale, neanche dopo la condanna del tribunale.
Il romanzo di Sinno è un memoir. Su questo terreno negli ultimi anni, sono emerse molte storie così. Storie dure, strazianti, storie spesso raccontate “al femminile”. Il pericolo oggi credo sia l’eccesso di offerta. Tante narrazioni giocate sul binomio uomo carnefice-donna vittima (a cui si sommano quelle della cronaca giornalistica, naturalmente). A fare la differenza è il linguaggio. Lucido, antiromantico. Fatto di frasi brevi, di giudizi secchi. Molto simile a quello di Annie Ernaux, Nobel per la letteratura 2022. Tanto da sembrare, a volte, un suo calco. Ernaux del resto non si è tirata indietro: «Leggere ‘Triste tigre’ - ha scritto - è come calarsi in un abisso con gli occhi aperti. Ti costringe a vedere, a vedere davvero, cosa significa essere un bambino abusato da un adulto, per anni. Tutti dovrebbero leggerlo. Soprattutto gli adolescenti». Del resto Ernaux ha raccontato a sua volta (fra le altre cose) un’esperienza-limite, quella di un aborto clandestino, nella Francia degli anni 60, quando l’aborto, al pari che in Italia, era ancora reato. La vicinanza fra le due autrici non è solo stilistica.
Le esperienze traumatiche possono passare, ma restano. Segnano per sempre. Questa mi pare sia una delle lezioni che si possono trarre da questa lettura. Il giudizio, la considerazione espressa dai protagonisti, invece, può cambiare nel tempo, perché la vita comunque continua, modificando ricordi ed emozioni. Questo per certi versi è scandaloso. È scandaloso che la vita continui lungo binari apparentemente ordinari dopo (e persino durante) le violenze, gli abusi sui minori, i massacri di civili, Auschwitz. Com’è possibile? È quello che ci chiediamo leggendo opere come “Se questo è un uomo”, e forse, anche se su scala ovviamente diversa, come “Triste tigre”.