Addio a Jole, voce instancabile del padre ucciso a Mauthausen
La figlia di Adolfo Berretta. In 5 giorni il virus si è portato via anche lei Una vita a ricordare il padre. Era uno dei "7 di Gusen", gli eroi silenziosi della Bolzano operaia uccisi a Mauthausen nel marzo del 1945
Bozano. Il virus si è portato via anche Jole Berretta. L'aveva aggredita cinque giorni fa, a casa, in viale Venezia. Prima di uscire, scortata dagli infermieri, aveva lanciato un ultimo sguardo alle fotografie che l'avevano accompagnata in tutti questi anni: le cerimonie al muro del lager, lei con stretto al collo il suo fazzoletto a righe bianche e azzurre, quello delle vittime dei campi di concentramento. E al volto di Adolfo Berretta. Il papà.
Era uno dei “sette di Gusen”. Gli eroi silenziosi della Bolzano operaia. Tutti caricati su un carro bestiame il primo di febbraio del 1945: l'ultimo convoglio per Mauthausen, di cui Gusen era l'orrida filiale della morte. In una gelida mattina d'inverno quel treno si era portato via la cellula che teneva in piedi la rete resistenziale di Manlio Longon. Presi, interrogati, torturati. Nessuno aveva parlato. No, forse uno, l'ottavo, quello che poi condusse al loro arresto. E nessuno dei sette tornò dal lager. «Ogni volta che capitavo dalla Jole, in viale Venezia, c'era sempre il suo sorriso ad accogliermi. E poi scalpitava dalla voglia di mostrami ancora il suo fazzoletto a righe, le lettere, i ricordi...».
È commossa Carmen Amadori. Lei, terza cugina, vedeva in Jole la testimone più impavida della sua famiglia allargata. Tutti arrivati da Urbino. In una Bolzano che provava allora a cambiare con l'italianizzazione forzata. La quale, vista sui libri di storia è una cosa, vissuta nei ricordi un'altra. «Mio papà lavorava all'Enel, quando ancora era vivo Adolfo - ricorda Carmen - che era suo primo cugino. Partiva la mattina con la squadra verso Cardano. Scavavano le gallerie nella montagna per la centrale elettrica. Chilometri di fatica. È morto giovane, papà. Era magro, come tanti suoi amici allora. Aveva solo 54 anni. Sarà stato il lavoro sotto le rocce...».
Con Cardano c'entrava anche Adolfo Berretta, il papà di Jole. Aveva in gestione la trattoria Val d'Ega, proprio lì, a Cardano. Chissà quanti lavoratori saranno passati dai suoi tavoli. Certamente Alfredo, il papà di Carmen. Sicuro anche i “sette”. Lì saranno state fatte le prime considerazioni su quello che stava accadendo. La guerra, l'arrivo dei tedeschi. E poi gli arresti, la repressione. Le notizie dei primi prigionieri e gli interrogatori al corpo d'armata.
Adolfo avrà discusso con Tullio Degasperi, Walter Masetti, Decio Fratini, Erminio Ferrari, Romeo Trevisan, Gerolamo Meneghini, gli altri sei eroi di Gusen.
Di lì passava la Bolzano che lavorava nelle fabbriche della Zona, alle centrali, negli uffici. Che si interrogava sul “cosa fare”. Quanti di loro avranno detto: “facciamo!”. Gente come tanti. Facce pulite. Ma che al momento giusto si sono scoperti col coraggio silenzioso della gente per bene. Zitti, anche di fronte alle torture e al lager. Gli amici non si tradiscono mai. «Di questo mi parlava spesso Jole - ricorda Carmen Amadori - del suo Adolfo e degli altri...».
Negli ultimi anni era un poco triste Jole Berretta. Meglio: arrabbiata. Una volta, dopo l'ennesima cerimonia in ricordo dei “Sette di Gusen” prima col sindaco Spagnolli, poi con Caramaschi sempre presenti, Jole si era lasciata sfuggire: «Siamo qui, come sempre, io e gli altri parenti. Facciamo il nostro dovere di ricordare. Abbiamo anche una storia da raccontare ma i giovani non sanno nulla di quanto è accaduto. Fanno impressione - aveva sussurrato amareggiata - le interviste ai ragazzi di oggi. Certe loro uscite. Mi sembra che tutto possa svanire, tanto che portare queste corone per me è sempre più faticoso...». Ma le aveva sempre portate. Impavida. Finché ha potuto, è andata anche tutti gli anni a Mauthausen.
In realtà, Bolzano non ha mai dimenticato. Non lo ha voluto fare. Certo, c'è solo una lapide oggi, in Zona. In tanti attendono un vero monumento. Forse arriverà, adesso. Anche perché cinque dei 13 “trasporti” che sono giunti a Gusen e a Mauthausen dopo l'8 settembre del '43, hanno avuto come stazione di partenza proprio Bolzano. E il suo famigerato lager. Alcuni dei prigionieri sono tornati. Ma nessuno tra gli ebrei. E nessuno dei “Sette”. Erano i tessitori della rete di Manlio Longon a Bolzano. E quando, il 14 dicembre del '44, la Gestapo cattura il capo, gli altri sanno di essere braccati. Tullio Degasperi è il primo ad essere preso. Poi tutti gli altri, compreso Adolfo Berretta. Sono i cosiddetti "capocellula". Vengono probabilmente traditi da un compagno. Dopo la guerra, il figlio di Tullio ammetterà di averlo anche incontrato. “Ma non gli ho detto nulla - spiegherà - perché non tutti nascono eroi”. Ecco la grande forza di queste famiglie. Non eroi per caso, perché erano tutti ben consapevoli dei rischi a cui andavano incontro. Ma non eroi alla ricerca di vendette.
Ecco, Jole era una delle ultime testimoni di queste persone capaci di gesti inimmaginabili ma poi in grado di ritornare al loro lavoro, alla vita e alla famiglia. Senza nulla chiedere. Né denaro né onori. «Vorrei soltanto che il ricordo non morisse mai» si era lasciata sfuggire Jole negli ultimi tempi. Ecco l'unica cosa che ci chiedono. Non li si può deludere. Anche Jole se ne è andata in silenzio, uccisa da un virus che non guarda in faccia nessuno, neppure le nostre nonne. Aveva 90 anni e viveva col figlio Sandro. Ora il suo fazzoletto è lì, a casa, al suo posto, con i ricordi, le fotografie di Adolfo e degli altri amici-eroi, facce da operai, padri di famiglia. Adolfo Berretta aveva 55 anni quando fu caricato su quel carro. Lo sapeva che non sarebbe tornato. Ma immaginava che qualcuno, a casa, avrebbe conservato il suo ricordo. Così è stato.