Bolzano, lotta allo sfruttamento della prostituzione. Dalla strada a una nuova vita: «Scelta difficile per le vittime»
Il direttore del progetto “Alba” spiega paure e dubbi delle donne: «Anche se trattate da schiave come le tre romene oggi al sicuro, non sempre hanno il coraggio di spezzare le catene»
BOLZANO. Finito il lockdown; abolito il coprifuoco dal 21 giugno. Sulle strade, la notte, sono tornate prostitute e clienti: dall’uscita dell’autostrada a via Galilei, sulla statale lungo via Innsbruck; e poi in via Macello, nella zona dei Piani e dalle parti della stazione. La pandemia ha messo in crisi anche il mercato del sesso. I divieti di spostamento, se non per motivi di lavoro, salute, urgenza, hanno impedito di fatto ai clienti di migrare dalle valli verso le città e da una provincia all’altra, per evitare di essere “scoperti”. Il coprifuoco alle 22 ha fatto il resto.
Il lavoro - dicono sia le forze dell’ordine che le associazioni che monitorano la situazione sul territorio - durante il lockdown si è spostato dalla strada in appartamento; dal marciapiede agli incontri virtuali; ma c’era anche chi offriva prestazioni andando direttamente a casa del cliente. Gli incassi però hanno subìto una drastica riduzione e questo ha portato diverse donne a chiedere aiuto. È così che i volontari di “Alba”, il progetto antitratta, distribuendo settimanalmente i pacchi alimentari, hanno avuto l’opportunità di parlare e conoscere meglio alcune di loro. Tra queste anche le tre giovani romene controllate 24 ore su 24 da due connazionali aguzzini (di 21 e 23 anni) che le costringevano a lavorare fino a 9-10 ore al giorno; dormire in tendine montate sul greto del Talvera; lavarsi nell’acqua del torrente. Gli aguzzini di nuovo liberi I due aguzzini, arrestati dai carabinieri al termine di un’indagine lunga e complessa, sono stati condannati a due anni e quattro mesi di reclusione ciascuno, ma in quanto incensurati sono già tornati in libertà: non sconteranno neppure un giorno di carcere, perché il codice consente loro di chiedere l’ammissione ai servizi sociali in prova.
Una nuova vita
Le tre giovani sono ora ospitate in una casa protetta e hanno la possibilità di iniziare una nuova vita. Lo faranno? «È quello che ci auguriamo ma non è così scontato - spiega Alberto Dal Negro, direttore di Alba, il progetto partito nel 2003, per cercare di sottrarre allo sfruttamento donne, spesso poco più che ragazzine, portate in Italia con l’illusione di un lavoro e costrette invece a vendersi -. Sono processi che richiedono tempo. Bisogna riuscire a creare un rapporto di fiducia. Non è sempre facile, perché queste donne sono spaventate. Non sanno di chi possono fidarsi davvero». Arrivate nel ricco Alto Adige con la promessa di un lavoro vero e la speranza di mandare a casa i soldi guadagnati, le nigeriane, in genere con uno scarso livello di alfabetizzazione, temono che ribellandosi ai loro aguzzini, ci saranno delle ritorsioni sulle famiglie d’origine. E quindi - spiegano gli operatori di strada - capita che alla fine rimangano con chi le schiavizza. In molte di loro non c’è neppure la consapevolezza di essere vittime di sfruttamento. Diversa e forse ancora più complicata la situazione delle giovani che arrivano dall’Est, perché a sbatterle su una strada sono spesso gli stessi compagni o qualche familiare. Difficile trovare il coraggio di ribellarsi e denunciarli.
Una scelta difficile
In 18 anni di attività il progetto Alba, finanziato a livello nazionale e quindi anche in Alto Adige dal Ministero e dalla Provincia, ha salvato dalla strada 150 donne che hanno potuto cominciare una nuova vita. Poco più di 8 donne all’anno. Un numero esiguo che fa dire a qualcuno che l’investimento non vale la candela. «Lo so che la critica è questa - ammette Dal Negro - ma le conseguenze, anche in termini sociali, di non far nulla sarebbero molto più alte. Quindi, a mio avviso, vale sempre la pena offrire a chi è sfruttato sessualmente la possibilità di ricominciare. Che però non è una passeggiata, perché vanno recisi contatti e legami con la vita di prima. Ci sono regole ben precise da rispettare. Bisogna aver voglia di seguire davvero un cammino di “ricostruzione” che passa attraverso la formazione scolastica, l’apprendimento della lingua, l’ingresso nel mondo del lavoro. Passaggi indispensabili per raggiungere assieme all’autonomia, la libertà perduta».