I ricordi bolzanini di Luigi Rovighi, l'ebreo sfuggito ai nazisti


Fabio Zamboni


 BOLZANO. Ci sarà anche lui, Luigi Rovighi, domani a Treviso alla consegna della medaglia "Giusto tra le nazioni" a Maria Luisa Gardin. Perché è lui il vero protagonista di questa storia che il nostro giornale ha raccontato ieri. Era lui il bambino ebreo di 10 anni sottratto ai nazisti che lo cercavano a Bolzano nel 1943, portato in salvo a Caerano in provincia di Treviso dai genitori di Maria Luisa.  «Certo che ci sarò - ci racconta Rovighi al telefono da Bologna, dove vive da 47 anni - perché anche se non ci sono più i miei salvatori, Pietro ed Elisabetta Gardin, voglio abbracciare la loro figlia. Loro mi hanno davvero salvato la vita, nascondendomi in un furgone e portandomi in Veneto. Rischiando oltretutto la loro vita, perché strada facendo incontrammo posti di blocco ogni dieci chilometri, soldati coi mitra spianati, ai quali sfuggii perché mi presentarono come cugino dei loro figli».  Per quel rischioso salvataggi i nomi dei coniugi Gardin verranno aggiunti sul monumento "Righteous honor wall" al museo Yad Vashem di Gerusalemme. Ma facciamo un passo indietro, assieme a Luigi Rovighi.  Lei era a Bolzano, quando sfuggì ai nazisti.  Sono nato a Bolzano nel novembre del '32, e ci sono vissuto per oltre trent'anni. Abitavo con la mia famiglia in Via Ospedale e frequentavo il Conservatorio, dove mi sono diplomato in violino con il famoso maestro Giannino Carpi. Mio padre Augusto era ingegnere e ha progettato diverse fabbriche bolzanine.  Che cosa ricorda della sua infanzia?  Anni sereni, a parte quel drammatico episodio della fuga in Veneto. Di Bolzano ho conservato un buon ricordo: la mia famiglia stava bene, io abitavo a due passi dalla scuola, la città ricominciava a vivere subito dopo la guerra.  I nazisti la cercavano perché, quando non riuscivano a catturare un ebreo adulto, ripiegavano sul suo primogenito.  È così. Cercavano me perché mi padre si era subito messo in salvo, scappando in Valle di Non. A salvarlo fu monsignor Bortolameotti di Trento, che ottenne la medaglia dei Giusti e che grazie a quella fu nominato monsignore. Lui era il parroco di Cloz, in Valle di Non, dove mio padre rimase nascosto nella canonica per mesi.  E lei invece si mise in salvo grazie alla famiglia Gardin.  Pietro Gardin, industriale tessile, aveva aperto una fabbrica a Bolzano e mio padre l'aveva aiutato. Sua moglie incontrò per caso mia madre che era disperata perché si aspettava una visita imminente dei nazisti e allora decise di aiutarla, portandomi subito a Caerano assieme ai suoi due figli.  E in quei mesi riuscì a tenersi in contatto con la mamma?  Avevo soltanto dieci anni, non ricordo i dettagli. È come se avessi vissuto sospeso, senza capire perché mi trovavo lontano da casa. Loro si muovevano, andavano a trovare parenti e conoscenti e io dovevo restare a casa: solo più tardi ho capito perché.  Ma come mai la storia è riemersa solo adesso?  Quando, vent'anni dopo la fine della guerra, iniziò il processo ad Eichmann, mio padre inviò una lettera di ringraziamento al signor Gardin. Da lì partì una procedura per la consegna della medaglia dei Giusti, che però si bloccò quando scoprirono che io non praticavo la religione ebraica. Tutto fermo, fino a quando, recentemente, è arrivata la comunicazione ufficiale da Gerusalemme, con il riconoscimento a Pietro ed Elisabetta Gardin.  Oggi vive a Bologna. Torna ancora a Bolzano?  Mi sono trasferito a Bologna a 33 anni: vinsi un concorso per entrare nell'orchestra del Teatro Comunale. Ho anche insegnato al Conservatorio di Bologna. Qui ho moglie e un figlio, anche lui violinista. A Bolzano ho conservato la mia casa, in Via Thuille, e ci vengo ogni tanto a trovare mio fratello. Ma non dimentico la mia città.













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