Il “miracolo” dei nonni arrivati dal Trentino e ritrovati con una foto
La storia. La famiglia Litterini, divisa dalla Grande Guerra, si è riunita in Argentina
Santa rosa (argentina). La migrazione dall’Italia all’Argentina tiene ancora oggi saldi i legami tra i due paesi. Nella cultura, con la presenza massiccia di musica italiana nelle radio argentine e di programmi italiani in televisione; nel linguaggio, la cui influenza italiana dette vita a Buenos Aires a un vero e proprio idioma chiamato “lunfardo” e diffuso in tutto il paese; nella cucina, dove alla carne argentina si affiancano la passione per la pasta, la pizza e gli amari italiani. Sono molti i giovani argentini che sognano di viaggiare nel Vecchio Continente per scoprire le proprie origini.
La ricerca delle radici
Dario Molinari, che proviene da Alessandria per parte dei bisnonni, è stato uno di questi giovani argentini: «Ho sempre voluto scoprire i luoghi delle mie radici, ma solo quando ho compiuto ventotto anni mi si è presentata l’occasione» spiega. Dario si era infatti spostato a Trento per studiare giurisprudenza all’Università, dove si è poi laureato con una tesi sulla sospensione del giudizio. «L’Europa era avanti in tutto rispetto all’America Latina. Ricordo quegli anni come una sfida enorme. Fu una sfida imparare l’italiano ma soprattutto mantenermi: vivevo in via Brennero, dietro al benzinaio, negli spazi resi disponibili dall’Opera Universitaria». Chiuso in una cassaforte, Dario conserva gelosamente il proprio diploma di laurea incorniciato insieme ai documenti risalenti a quel periodo. C’è addirittura la tessera del supermercato Poli-Regina. «Lavorai ovunque, d’inverno mi spostavo a Bolzano per vendere vin brûlé» spiega. I soldi gli sarebbero serviti poi a spostarsi per cercare la sua famiglia originaria, con la quale dalla seconda guerra mondiale si erano persi i contatti. «Fu una ricerca difficile, ma ne valse la pena. Arrivai in Piemonte con delle foto di famiglia» racconta. Quando, dopo svariate ricerche, trovò finalmente uno zio, scoprì che le stesse fotografie le conservava anche lui: un legame che nonostante il distacco aveva retto per settant’anni. «Non dimenticherò mai quella strana sensazione di essere di fronte a mio zio, che aveva lo stesso naso e le stesse orecchie di mio nonno, ma che sentivo parlare un’altra lingua e che viveva a quindicimila chilometri di distanza».
I Litterini di Villa Banale
Gli argentini raccontano sempre con emozione gli incontri con la propria famiglia originaria, li vivono come imprese eroiche che rimangono nella storia della famiglia per sempre. È per questo che, quando la famiglia Litterini mi riceve nella sua casa, è particolarmente emozionata. Incontro Helvio e suo fratello Arturo, due anziani molto simpatici, e il giovane nipote Facundo. Iniziamo a parlare bevendo mate, un’infusione che per gli argentini rappresenta un rituale al pari di quello del caffè in Italia e quello del tè in Inghilterra, ma che si condivide bevendo dallo stesso recipiente.
La famiglia Litterini ha le sue radici a Villa Banale, in provincia di Trento. «Se i miei genitori partirono non fu per loro volontà, furono i miei nonni a incitarli perché si salvassero dalle disgrazie della Prima guerra mondiale» racconta Helvio Litterini. Suo padre non gli parlò mai del Belpaese: «Ogni volta che pronunciavo “Italia” rimaneva in silenzio, non capii mai perché». Il padre di Helvio dovette lavorare duro per guadagnarsi da vivere e forse tempo per soffrire la nostalgia ne ebbe poco: «Lavorava in due estancias (fattorie argentine dove lavorano i gauchos, i mandriani delle pampas, ndr) ma non viveva bene. In alcune non c’era nemmeno l’acqua e mamma doveva farsi otto chilometri a piedi per trovarla e altri otto per tornare indietro». La situazione familiare migliorò solo quando il padre di Helvio vendette le sue cose per acquistare un furgoncino. «Fu un salto nel vuoto, all’epoca era un investimento non facile: tutti giravano a cavallo e avere un mezzo proprio ti apriva nuove strade, ma non si sapeva sempre bene quali».
Così, dotata di furgoncino, la famiglia Litterini affrontò diversi traslochi: «A quei tempi le case le costruivano i migranti con le proprie mani, non c’erano imprese edili, si facevano aiutare dai compaesani. Io ricordo che la domenica casa nostra si riempiva di italiani che davano una mano per costruire il tetto in lamiera, che veniva poi coperto di paglia» spiega Arturo. È con orgoglio che il fratello di Helvio ricorda quegli anni: «Non avevamo niente: mancava la luce e il gabinetto era un pozzo fuori dalla casa. Ma eravamo felici: a tavola avevamo formaggi e salumi, ma soprattutto il minestrone di verdure. Il martedì e il giovedì si preparava la polenta, il giovedì e la domenica erano i giorni della pasta». Helvio dice di ringraziare ogni giorno i genitori: «Papà mi mandò alla scuola industriale, così crebbi curioso. Ascoltavo la radio e cercavo le notizie sull’Italia che papà non mi raccontava». Figlio di una famiglia fuggita dalla guerra, Helvio dovette poi entrare nell’esercito e, nel settembre del 1955, finì anche lui in guerra quando scoppiò la “Rivoluzione Libertadora” che pose fine al governo di Juan Perón: «Ero armato fino ai denti, mio nonno non sarebbe stato contento ma io non avevo scelta». È con orgoglio che Helvio e Arturo ricordano gli anni nell’esercito e quelli di lavoro: «Essere chiamati “gringos”, italiani, per noi è un onore. Gli italiani ci trasmisero la cultura del lavoro, della fatica e l’importanza delle riunioni famigliari, quando ci si siede a parlare, a mangiare, a giocare a carte o a raccontare aneddoti, per esempio di quando durante il viaggio in nave verso l’Argentina nacque una bambina, siccome era in mezzo al mare venne chiamata Marina e una volta sbarcati divenne la nostra vicina di casa».
Il miracolo dei nonni
Una delle imprese frequentemente narrate dai Litterini è sicuramente quella dei nonni che, otto anni dopo aver mandato i figli dall’altra parte dell’oceano, si ritrovarono soli in un’Italia che li stava mettendo in ginocchio. «I nostri nonni decisero di raggiungere i figli. Ma sapevano solo che si erano trasferiti nelle pampas, i contatti a un certo punto si erano persi a causa della guerra» spiega Helvio. Fu un’impresa incredibile perché non sapevano da dove iniziare nella ricerca. Come Dario quando venne in Italia, i nonni di Helvio e Arturo partirono con una fotografia e cominciarono a percorrere le enormi distese delle pampas alla ricerca dei figli. «Qui accadde il miracolo. Mio padre col suo carro stava andando a Santa Rosa per lavorare e incrociò un uomo e una donna che camminavano nella direzione opposta. I due lo fermarono e gli chiesero “Conoscete la famiglia Litterini?” e gli mostrarono una fotografia che avevano con loro. Lui guardò loro, poi la foto, si tolse il sombrero che gli copriva il volto e li abbracciò: “Mamma, papà, sono io, vostro figlio!”».
Helvio mentre racconta piange a dirotto, così è il nipote Facundo, oggi attivo nel circolo trentino della città, a concludere. «Solo chi emigra può capire il trauma che rappresenta spostarsi in continuazione. Non hai più sicurezze e l’unica è quella che porti dentro di te perché il mondo esterno cambia continuamente».
Per questo, spiega, ci sono famiglie che tutt’oggi hanno un rapporto difficile con il paese di origine. Cercano di tenerlo lontano o addirittura dimenticarlo, anche se è impossibile. Sono famiglie con i bauli pieni di diari e lettere, ma che hanno lasciato chiusi per paura di aprirli. «Un giorno lo faremo» dicono. L’esperienza della migrazione non si esaurisce in una generazione, ma è un processo che coinvolge figli, nipoti, pronipoti e, chissà, forse anche le prossime generazioni.
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