Moro: «La conquista del Nanga l’ho dedicata a Günther Messner»

L’alpinista, bolzanino d’adozione, è rientrato ieri in Alto Adige dopo la prima in invernale «Dopo tre mesi in Himalaya in condizioni al limite della sopravvivenza mi godo un po’ la famiglia»


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Scusi, ci potremo sentire tra un po’? Sto guardando mio figlio Jonas che fa il corso di sci. Sono in Val Casies, per qualche giorno di relax in albergo, con mia moglie e mio figlio». È tornato ieri in famiglia Simone Moro, 48 anni bergamasco d’origine e bolzanino d’adozione nonché membro della squadra del Soccorso alpino del Cai del capoluogo, dopo la prima invernale del Nanga Pargat (8.126 metri), impresa storica che lo consacra tra i grandi dell’alpinismo mondiale: è l’unico ad aver conquistato quattro ottomila in inverno (Shisha Pangma, Makalu, Gasherbrum II e adesso il Nanga Parbat appunto). Con la moglie Barbara Zwerger abita a Gries, ma presto si trasferirà ad Ora, dove lei, pure alpinista, insegna educazione fisica. È rientrata a casa anche Tamara Lunger, 29 anni, la fortissima alpinista di San Valentino in Campo (Cornedo)che si è dovuta fermare a cento metri dalla vetta.

Quali sono state le prime emozioni rientrando in Italia?

«Innanzittutto, la bellissima sensazione provata venerdì pomeriggio all’aeroporto di Malpensa: siamo stati accolti con l’entusiasmo e la passione che si riservano alle squadre di calcio. Non capita tutti i giorni ad un alpinista».

Ad un alpinista normale no, ma ad un alpinista entrato nella storia forse sì.

«Sono contento di essere riuscito a coronare questo sogno, perché si è tornati a parlare a livello mondiale di montagna e di un’impresa che da trent’anni alpinisti di altissimo livello stavano tentando di realizzare, senza mai riuscirci».

Anche per lei questo era il terzo tentativo.

«Sapevo che realisticamente avevo il 10-15% delle possibilità di farcela, perché coloro che mi hanno preceduto sono stati alpinisti blasonati, come i polacchi specialisti delle invernali in Himalaya. Ma stavolta lo sentivo che ce l’avrei fatta».

La vostra spedizione è durata quasi tre mesi, dal 6 dicembre al 4 marzo, il 21 marzo finisce l’inverno, avete però rischiato di non farcela.

«Lo ripeto: sentivo con ogni parte di me che stavolta era quella buona, anche se il tempo a nostra disposizione stava rapidamente finendo e anche se i polacchi le conquiste in invernale le hanno fatte quasi sempre a marzo, perché a febbraio le condizioni sono proibitive».

Proibitive quanto?

«Il giorno in cui abbiamo deciso di attaccare la cima assieme a Tamara, Alex (Txicon spagnolo) e Ali (Sadpara pakistano) c’erano 35 gradi sotto zero, il vento che tirava a 45 chilometri all’ora e quindi la percezione del freddo era di meno 50. In questi tre mesi abbiamo sempre dovuto lottare contro un vento fortissimo».

Perché questa passione per le invernali?

«Perché tutto il resto è già stato fatto. Io ho sempre voluto spingere l’asticella un po’ più in su. Anche se questo impone di mettere in conto rischi, rinunce e sconfitte. Del resto dopo mostri sacri come Cassin, Bonatti e Messner non è facile fare qualcosa che entri nella storia ».

Come si fa a resistere per tre mesi in una tenda, a 6-7 mila metri di quota con temperature e venti polari?

«Si resiste se hai un sogno da realizzare e tanta pazienza».

Quando avete capito che era arrivato il momento di tentare l’ultimo assalto alla vetta?

«Il 20 febbraio abbiamo visto le previsioni che annunciavano che il 22 ci sarebbe stata luna piena e avremo avuto una finestra di bel tempo. Il 26 Tamara, Alex e Ali sono partiti da quota 7.150 intorno alle 6, io dieci minuti prima delle 7. Siamo arrivati in cima (8.126) alle 15.30. Ovvero dopo otto ore. Per scendere ne abbiamo impiegate altre quattro».

Peccato che Tamara si sia fermata 100 metri prima.

«Purtroppo Tamara, una fuoriclasse dotata di un motore che pochi uomini posseggono, quella mattina stava male. Ha vomitato la colazione, anche perché aveva preso freddo durante la notte: abbiamo dovuto dormire in quattro su due materassini. La grandezza di questa ragazza si è vista anche nella capacità di decidere di tornare indietro, per non ostacolarci nel rientro. Sapeva che anche noi eravamo al limite e difficilmente avremmo potuto aiutarla nel ritorno al campo base».

Il primo pensiero quando è arrivato in cima?

«Ho pensato a Reinhold e Günther Messner che quasi 50 anni fa hanno conquistato il Nanga Parbat e sono scesi lungo la via che io ho fatto salendo. Purtroppo Günther è morto travolto da una valanga nella fase di discesa».

Perché ha dedicato la conquista a Günther?

«Alcuni anni fa, per un trasmissione radiofonica, avevo fatto un’intervista a Reinhold che mi aveva parlato di Günther che, pur essendo ancora molto giovane, era già fortissimo. L’ho dedicata a lui che mi ha regalato un sogno».

Per la spedizione al Nanga lei ha scelto di tornare all’antica.

«Sono salito senza ossigeno, senza gli scarponi riscaldati di ultima generazione ed evitando di usare le tecnologie per comunicare. Un po’ come facevano gli alpinisti che mi hanno preceduto».

Un po’ di silenzio dopo le critiche sollevate dalla sua conduzione del reality “Monte Bianco – Sfida Verticale”.

«Per me quella trasmissione è stata l’occasione per parlare di montagna in maniera divertente, ma come immaginavo sono stato subissato dalle critiche».

C’è chi ha detto che quelle sono cose da alpinista a fine carriera.

«E io ho dimostrato il contrario. Tanto che adesso chi mi criticava è già salito sul carro del vincitore».

Lei ha 48 anni non sono pochi per un alpinista del suo livello.

«È così. Anche perché ho fatto già 54 spedizioni, di cui 15 in invernale, con tutto ciò che questo comporta. Però io mi tengo come un orologio svizzero: niente fumo, niente alcol, niente aiutini chimici e poi allenamento costante. Faccio in media 140 chilometri di corsa alla settimana».

C’è solo un’Ottomila, il K2, che non è stato ancora conquistato nella stagione invernale: lo tenterà?

«No».

Perché?

«L’ho promesso a mia moglie che ha sognato che morivo mentre scalavo d’inverno quella cima».

Che donna è sua moglie?

«La persona più autonoma del mondo».

Prossimi programmi?

«Devo gestire la notorietà conquistata e voglio sfruttare il momento positivo per parlare di montagna».

E poi?

«Io sono anche elicotterista e voglio tornare a creare un unità di elisoccorso in Himalaya che non esiste. Ci avevo già provato alcuni anni fa, ma nel 2013 il mio elicottero è precipitato in Nepal. Spero di trovare qualche sponsor privato, altrimenti mi indebiterò».

E per quanto riguarda le scalate?

«Per il 2017 ho in mente alcune cime intorno ai 7 mila metri. Voglio puntare su ascensioni più tecniche».

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