la storia

Sophia e Iakob, la nuova vita dopo l’orrore 

Sono scappati dalla Georgia sei anni fa dopo il sequestro e pestaggio di lui per un banale episodio. Nel 2017 hanno trovato rifugio a Bolzano. «Ora siamo davvero felici»


Aliosha Bona


BOLZANO. Un sorriso che nasconde cicatrici enormi. Ma di sorridere, Sophia e Iakob, non ne possono fare a meno: quando cucinano, quando parlano, quando si guardano. Sophia è solare, vivace, entusiasta. Potrebbe parlare per ore. È sempre stata una loquace, fin da bambina. Iakob è ombroso, a tratti silenzioso. Passa da zero a cento. O da cento a zero. Come quando gli viene chiesto del suo passato, in Georgia. Un respiro profondo, un colpo nervoso di tosse, prende tempo. Vuole ripercorrere tutto dal principio. Probabilmente perché il dolore è troppo forte per entrare subito nei particolari. Così, per alleviare la tensione, offre una fetta di Khachapuri, una torta salata georgiana. Fuma da quanto scotta, all’interno è colma di formaggio: «La teniamo a cuocere anche per 48 ore di fila». Passati cinque minuti, Iakob inizia a raccontare.

Il mondo georgiano

Sophia e Iakob, dallo scorso novembre, vivono in un’accogliente casa nella periferia bolzanina. Sono nel capoluogo dal 2017. L’anno della fuga da un paese – la Georgia – di cui al telegiornale si sente parlare a singhiozzo. «Sui giornali e in tv viene raccontata una faccia distorta del Paese», comincia Sophia, «È pieno di corruzione, a partire dalle forze dell’ordine. I più poveri sono praticamente irraggiungibili dagli aiuti dello Stato. La Georgia è divisa due: chi ha i soldi controlla il potere. La maggior parte delle persone vive in condizioni difficili. Per non parlare del lavoro: con un contratto normale percepivamo 600 lari». Sono 200 euro al mese.

Sophia e Iakob avevano rispettivamente 24 e 30 anni quando si sono conosciuti all’interno di un casinò di Tblisi. Lei dietro la cassa, lui buttafuori. «All’inizio nemmeno ci piacevamo», ricorda Sophia, «Col tempo, parlando qua e là durante le pause, ci siamo iniziati a conoscere. Le prime chiacchierate, il primo appuntamento. E dopo qualche settimana già convivevamo».

La cattura

Un giorno, cambiò tutto. La routine, fatta di ore e ore in quella sala slot, spezzata da un avvenimento apparentemente banale. «Sembrava una sera come le altre», prende parola Iakob, «Un uomo, piuttosto conosciuto e di potere, si avvicina a una macchinetta. Lo osservo, era nervoso, forse ubriaco. A un certo punto, presumibilmente dopo una partita persa, si scaglia contro la macchinetta. La rompe, io cerco di fermarlo ma è ormai troppo tardi».

Il danno è fatto. Il problema nasce quando la colpa viene addossata a Iakob: «Mi hanno chiesto di ripagare qualcosa che non avevo rotto io, solamente perché ero l’addetto alla sicurezza. E solamente perché chi mi trovavo di fronte, gestiva gli affari della zona». Il rifiuto di Iakob – dettato dal principio e da una somma esageratamente alta da pagare – ne scaturì la cattura. Un inferno durato 72 ore. Ricorda a fatica i tre giorni più bui della sua vita. Non solo perché sta cercando di cancellarli: «Mi diedero così tanti colpi di manganello che persi i sensi. Mi risvegliai il secondo giorno. E la violenza diventò psicologica. Dissero che il potere era nelle loro mani e che io avrei dovuto eseguire gli ordini».

Con la vita appesa a un filo, il viso ricoperto di sangue, varie ossa rotte, Iakob cedette. Promise di pagare i danni, con tanto di firma. Il giorno dopo, lui e Sophia, erano già a bordo di un aereo.

Il viaggio

Da Tbilisi ad Atene, da Atene a Milano, da Milano a Bolzano: «Non abbiamo avuto il tempo di programmare nulla. Abbiamo lasciato la nostra vita con una valigia per due in mano. Un paio di pantaloni, qualche maglietta e un paio di scarpe». I risparmi di una vita se ne sono andati in fretta: «Non avevamo nulla, non sapevamo cosa fare ed eravamo soli. Avevamo freddo, fame, non capivamo la lingua, eravamo esausti. Non potevamo permetterci neanche il sapone per lavarci. Abbiamo pianto tanto», racconta Sophia.

La lenta rinascita

Il “gruppo Volontarius” fu l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi. hanno trascorso anni tra la casa conte forni e la struttura “lemayr”, due centri d’accoglienza gestiti dall’associazione dove hanno imparato l’italiano e trovato cure psicologiche. «Abbiamo vissuto insieme ad altre sedici famiglie provenienti da ogni parte del mondo, senza tranquillità o privacy. non puoi andare al bagno quando vuoi o mangiare quando hai fame. Non sei mai solo e non c’è mai silenzio. Non si riesce a dormire perché c’è chi russa, chi piange, chi torna dal lavoro a tarda notte».

Certo, sempre meglio che stare per strada. Trovare casa sembrava un miracolo, un sogno irraggiungibile nella costosa Bolzano. Negli anni, però, qualcosa si è mosso, complice lo spirito di sacrificio e l’ottima condotta della coppia. che si salutava la mattina – lui per il turno in fabbrica, lei alla sede di lavarent – e si riabbracciava la sera.

Dallo scorso novembre, grazie al contributo di Volontarius, sophia e iakob si sono ripresi ciò che avevano perso in un attimo, a suon di ricatti, violenze e paure. Oggi sono tornati a vivere, sotto lo stesso tetto. Sotto le note del loro idolo, Luciano Pavarotti.

E del buon cibo, a cui non rinunciano veramente mai.

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