TRENT'ANNI FA

Zemella, da operaio a costruttore: «Il segreto? Lavoro, salute e umiltà» 

Il personaggio. È stato uno dei più importanti costruttori della Bolzano del dopoguerra (oltre mille alloggi). Era arrivato in città nel 1937 in bici da Rovigo in cerca di lavoro. Assunto nei cantieri, col tempo si mise in proprio. «La corruzione era sconosciuta, si lavorava molto ed era bellissimo»


Alberto Faustini


C’era una volta Bolzano. Ripubblichiamo la testimonianza rilasciata nel 1991 al nostro direttore Alberto Faustini da Angelo Zemella, uno dei più grandi costruttori di Bolzano del dopoguerra, partito da semplice operaio. Se volete rileggere una storia, scriveteci a: bolzano@altoadige.it

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Aveva solo una vecchia bicicletta e tanta voglia di emergere. Voleva andare a Milano o a Torino. Ma gli hanno consigliato di venire a Bolzano. Angelo Zemella è arrivato in questa città proprio in bici, sotto la neve, nel 1937. Era un giovane operaio. Non aveva una lira. Ma era pronto a fare qualsiasi lavoro. In pochi anni è diventato un grande impresario. A Bolzano ha costruito mille alloggi e per un lungo periodo ha anche dato lavoro a più di trenta persone. Per pagare gli operai, alla fine del mese, è spesso rimasto senza una lira. “Ma una medaglia – dice oggi sorridendo – ha realmente due facce: dietro alla sfortuna c'è sempre anche un po' di fortuna”.

Avrebbe voluto studiare, ma era il più vecchio di dieci fratelli. E ha dovuto darsi da fare fin da quando era ragazzino. La salute, la volontà e la modestia gli hanno consentito di arrivare in alto. Proprio l'umiltà, ancor'oggi, è uno dei suoi pregi migliori: una sorta di bici (ben diversa da quella che inforcava un tempo) che lo porta con delicatezza verso una vecchiaia più che serena.

Ha 78 anni (nel 1991, ndr), è sposato e ha due figli che grazie al suo impegno non hanno mai conosciuto, nemmeno da lontano, la povertà. Per mettere via qualche lira e per poter andare a ballare, quando era un ragazzo, chiedeva di poter lavorare anche di domenica. Ricorda: “Era dura, a quei tempi. Ma lavorare era bello, anche perché nessuno sapeva cosa fosse la corruzione”.

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Vengo da una famiglia molto povera. Io, il più vecchio di dieci fratelli, non ho avuto certo tempo per studiare. Dovevo lavorare, tentare di portare qualche lira a casa. La mia era una famiglia di mugnai. Si lavorava in un mulino, a pochi passi dal Po, in provincia di Rovigo. Facevo l’operaio – ricorda Angelo Zemella – ed ero sempre pronto a lavorare.

Da ragazzino prendevo 30 lire alla settimana. Per guadagnare di più chiedevo di poter lavorare anche la domenica, ma non sempre era possibile. Sabato sera, portando le 30 lire a mia madre, le chiedevo se me ne dava 2 per andare a ballare. Ma non era possibile. Me lo spiegava con tenerezza e poi mi dava una lira. Andavo dunque a ballare ogni quindi ci giorni.

Sognavo di andare a Milano

Mi sentivo forte e avevo tanta voglia di emergere. Nella zona di Rovigo questo non era però possibile. Sognavo di andare a Milano o a Torino, invece mi dissero che a Bolzano c'era la possibilità di trovare un lavoro. “Certo – dicevano al mio paese – non sarà facile trovare un letto e una casa, ma il lavoro non manca”.

Lo ammetto: non sapevo dove fosse Bolzano. Un anziano del paese mi fermò e mi chiese dove stavo andando. Gli risposi che andavo a Bolzano e che mi avevano detto che era una cinquantina di chilometri dopo Trento. “Quando sarai là – mi disse guardandomi negli occhi – ricordati di stare sempre con chi sa più di te e con chi ha più soldi di te”. È un consiglio che non ho mai dimenticato

Nel 1937, a 25 anni, ho salutato mia moglie e i miei fratelli. Mi sono messo in bicicletta e sono partito. Non avevo quattrini e non potevo dunque pensare di arrivare a Bolzano in treno. Ci sono così arrivato in bicicletta, in due tappe.

Quando sono arrivato, la città era letteralmente sepolta Sì, c'era neve ovunque. Sembra incredibile, ma mi arrivava fino quasi alle spalle. Giravo in bicicletta, senza una meta, quando all'improvviso mi fermò una signora. “Cosa stai cercando?”, mi chiese con un tono cordiale.

Le ho spiegato la mia situazione. E lei, che veniva dalla provincia di Rovigo, mi ha trovato una stanza. Ponte Roma e ponte Resia non c'erano. Per raggiungere il centro si doveva attraversare il ponte di ferro, ponte Loreto. Una volta arrivato a ponte Druso, mi sono fermato da Stablum e ho acquistato una cartolina. L’ho spedita a casa per dire che ero arrivato a Bolzano e che stavo bene.

In quei giorni, in città, stava iniziando un corso per operai. Non volevo farlo perché temevo di fare brutta figura. Tra gli iscritti c'era molta gente della mia età, nata nel 1912, e alla fine qualcuno mi convinse a partecipare. C’era tanta gente ed ero realmente preoccupato. Alla fine arrivai terzo e non è facile, ora, descrivere la mia gioia. Trovai una stanza e mia moglie poté finalmente raggiungermi.

Alla fine del corso conobbi l'architetto Pellizzari e un ingegnere del quale non ricordo più il nome. Mi hanno mandato alla Mondelli. E mi sono subito ritrovato a fare il capo operaio. Invidiavo, in senso buono, i colleghi che avevo sopra. Mi chiedevo cosa avessero più di me e speravo, un giorno, di poter essere come loro.

Qualche tempo dopo mi chiamò la Tonolini. Li ho fatto l'assistente edile e con me lavorava l'ingegner Levrini. Levrini è sempre stato una persona eccezionale. Quando l'ho conosciuto mi è subito tornato alla mente ciò che diceva quell'anziano del mio paese: «Stai con chi sa più di te».

Da Levrini ho imparato molte cose e quasi mi commuovevo quando mi telefonava per chiedere, proprio a me, dei consigli. Ogni sera andavo a scuola. Sono solo riuscito a completare le elementari, ma in quegli anni, come dire, mi sono specializzato in disegno. Lavoravo come un matto.

Oggi è tutto molto diverso. Quando sono arrivato a Bolzano, lo dico senza enfasi, si lavorava in maniera incredibile. E, in un certo senso, non si smetteva nemmeno di notte, perché i pensieri erano sempre tantissimi.

Nel '52 è morto il principale. L’ingegner Levrini decise di mettersi in proprio. Pensavo di seguirlo, ma ho poi deciso di fare lo stesso. Quando ho fatto il grande passo ero preoccupato, ma nello stesso tempo euforico.

Il primo anno ho fatto cinque case

Il primo anno ho fatto cinque case. Non mi sembrava vero. Ero veramente al settimo cielo. La sera, quando andavo a letto, non riuscivo però a non pensare al lavoro.

Sono stato fortunato. Ma ho avuto tre “armi” che si sono ben presto rivelate indispensabili: la salute, una grande volontà e una modestia ancora più grande. Più tardi mi ha dato una grossa mano anche mio figlio. Una volta diventato geometra si è subito messo a lavorare con me. Non ho mai avuto cause o problemi con la legge e questo mi rende particolarmente orgoglioso. Ho fatto mille alloggi e il lavoro mi ha dato grandi soddisfazioni.

La guerra? Sono andato in Francia e poi, tornato a Bolzano, ho lavorato negli uffici di via Cadorna. Ma dovevo mandare avanti la famiglia e per questo mi hanno lasciato a casa per lunghi periodi. Quando è morto mio padre, ho aiutato i miei fratelli. Alcuni vivono ancora a Bolzano e stanno bene. La vita è veramente una medaglia a due facce, accanto alle sfortune, regala sempre anche un po’ di fortuna.

Degli anni del militare a Bolzano ricordo ad esempio l’inaugurazione di Corso Libertà e di Corso Italia. In quella zona, prima, non c'era che campagna e la città finiva in piazza Matteotti. A inaugurare corso Libertà venne il principe Umberto.

Per me quelli erano anni difficili. Non avevo ancora denaro ed era dura. Passavo davanti al bar Moretti ma non avevo la possibilità di entrare a bere qualcosa. Le cose, come detto, sono poi cambiate. Ho lavorato molto per il Comune. Basile, il vecchio ingegnere capo, mi ha sempre dato una gran mano. Era bello, anni fa. Comandavano i tecnici e non i politici. E non sapevamo nemmeno cosa fosse la corruzione.

A Rovigo sono tornato solo due volte. Bolzano è ben presto diventata la mia città. Mi piace moltissimo e non me ne andrei per nessun motivo al mondo.

Un giorno mi sono guardato allo specchio e ho scoperto di essere vecchio. È vero: sono invecchiato quasi senza accorgermene. Ogni tanto vado ancora in ufficio. Ma solo per dare un'occhiata o perché mio figlio – che oggi si occupa solo della progettazione – mi chiede un consiglio. Dedico invece molto del mio tempo alla campagna: ho qualche terreno vicino a Mezzocorona e un paio di volte alla settimana vado là a dare una mano al contadino che si occupa costantemente delle mele e dell'uva. La salute, grazie a Dio, non mi ha ancora abbandonato.

 













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