L'intervista

«Intelligenza artificiale, così le nuove tecnologie aiutano la lotta al Covid» 

Lo scienziato meranese Marco Montali spiega come la pandemia ha riscritto la ricerca


Jimmy Milanese


MERANO. Appartiene all’élite degli scienziati più citati al mondo Marco Montali, il ricercatore meranese esperto di intelligenza artificiale. Impegnato presso il “Research Centre for Knowledge and Data” della Facoltà di Scienze e tecnologie informatiche della Lub, secondo l’H-Index (l’indice che misura la qualità della produzione scientifica), dal 2016 ad oggi il lavoro di ricerca di Montali è stato citato in ben 3229 libri o riviste di settore contro, ad esempio, le “sole” 1577 del professor Roberto Burioni.

C’è già una serie di prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali nel curriculum di Montali, tra i quali il premio “Marco Somalvico” 2015 dell’Associazione italiana per l’intelligenza artificiale come miglior ricercatore Under 35. Del suo talento si accorse già uno dei padri dell’intelligenza artificiale (Ia). Infatti, nel 2009 il professor Robert A. Kowalski giudicò la sua tesi di dottorato sulla programmazione logica come «una delle migliori da me mai lette».

Come è nata la sua passione per l’intelligenza artificiale?

Con i primi computer, da piccolo, perché mio padre è ingegnere elettronico e all’epoca era programmatore. parliamo delle elementari e del commodore vic-20, il mio primo computer personale. mio padre aveva qualcosa di più importante, ma allora i computer erano comunque enormi e poco potenti.

Da quei 20 megabyte ad oggi quanto è passato?

Oggi una sola foto pesa 20 megabyte. il salto dal punto di vista tecnologico è stato enorme. in un iphone di oggi hai più potenza di calcolo di quella che trovavi allora in computer che occupavano una intera stanza. poi tutto si è miniaturizzato. è stato fatto un salto anche ad un livello diverso, cioè nella sparizione della tecnologia. mi spiego. sul telefono hai sempre meno memoria, oggi non sai nemmeno più dove siano immagazzinati i tuoi dati. una volta tutto era in dischetti o usb, invece ora altri vedono la tecnologia che tu utilizzi soltanto.

Dal Vic-20 all’intelligenza artificiale: come ci è arrivato?

Avevo 18 anni, non sapevo a quale università iscrivermi. a bologna partecipai a una giornata delle porte aperte, interessato all’ingegneristica, quando trovai un professore che presentava i corsi di laurea con un taglio poco da ingegnere. ci spiegò che informatica ed ingegneria informatica sono discipline al confine con la matematica ma anche con la logica. ci suggerì un libro: lì nacque il mio amore per l’intelligenza artificiale.

Non partì tutto dai primi film di fantascienza?

Quella è la seconda faccia della medaglia. negli anni ‘80 uscirono i primi film sull’ia. avevano tre caratteristiche: un uso spinto della fantascienza, un aspetto tecnologico come in “war games” o il tema degli alieni, mentre i protagonisti erano sempre ragazzi che la vedevano più lunga degli adulti in tema di tecnologia.

Quindi si iscrisse a Bologna?

Sì. andai subito a cercare una tesi che andasse verso l’ia, anche se al tempo non c’erano ancora corsi specifici. in quegli anni è nata la passione per la ricerca che oggi mi ha portato alla lub, dove mi occupo dello sviluppo di tecniche basate su ia, logica e metodi formali per la gestione intelligente di dati e processi aziendali.

Cosa significa “intelligenza artificiale”, in parole semplici?

È una scienza che cerca di far fare alle macchine quello che normalmente fanno gli uomini grazie alla loro intelligenza. una definizione sfuggente, me ne rendo conto, perché allora si apre la questione su che cosa sia fare qualcosa di intelligente dal punto di vista dell’uomo. se una macchina fa qualcosa che richiede all’uomo intelligenza, non significa che la macchina lo sia. nella ricerca si è creata questa scissione: ti vuoi interrogare sulla natura dell’intelligenza umana, oppure ti concentri sull’ia debole, vale a dire la semplice ricostruzione di un processo da parte di una macchina?

Ma l’Ia nel mondo di tutti i giorni dove la vediamo?

Ormai in tantissimi strumenti che usiamo senza accorgercene, ad esempio sul cellulare nelle tecniche che riconoscono e classificano le foto, senza che tu le abbia catalogate. l’ia c’è nei servizi di geolocalizzazione di un percorso, nella medicina. in generale, quando vengono raccolti dati e senza che nessuno lo chieda qualcuno dà risposta a quelle che dovrebbero essere le tue preferenze, ecco, allora c’è di mezzo l’ia. poi in tutte le tecnologie di avanguardia come la robotica o la guida autonoma.

Un grande fratello che ci guida a nostra insaputa?

Ma che senza saperlo noi mettiamo in quella condizione. nelle interazioni in rete o social, ad esempio, ci sono algoritmi che ti consigliano cosa comprare, che film guardare, quali informazioni potrebbero essere di tuo interesse. in questo modo non hai più una visione obiettiva di quello che accade, perché quello che appare sul tuo schermo è deciso da un algoritmo. a proposito, ci sono due problemi. la riduzione delle differenze tra le informazioni che vedi. poi, più interagisci (e quindi ti fai profilare), più quei sistemi ti faranno vedere lo stesso tipo di informazioni. con un esempio, più sei no-vax, più ti verranno presentati contenuti di questo tipo, più la realtà ti sembrerà esattamente quello che vedi.

Però un buon repubblicano dovrebbe voler sapere cosa pensano i democratici, no?

Certo, ma il problema è ancora più complesso. ci sono aziende che ti profilano, che creano una mappa del sentimento della gente, e la cosa più preoccupante è che utilizzano tecniche per influenzare la tua opinione. faccio un esempio. se vuoi sensibilizzare la popolazione sul tema dell’ambiente può starci. ma se un coordinatore di partito prima cerca di capire cosa pensa la gente e poi, utilizzando tecniche invasive per influenzare le opinioni, ottiene il loro voto, come la mettiamo?

Senta, la pandemia ha avuto un impatto sull’Ia?

Uno dei sottocampi dell’ia è legato proprio all’apprendimento dai dati. in questo periodo molte aziende o persone hanno dovuto operare una transizione veloce verso la digitalizzazione e questo ha creato una mole di dati immensa che contribuisce ad allenare gli algoritmi. la pandemia ha indirettamente fatto confluire nel sistema una maggiore mole di dati, in estrema sintesi.

Una applicazione che abbia aiutato la lotta alla pandemia?

Il riconoscimento delle immagini sempre con algoritmi, ad esempio in cina, dove un programma è in grado di capire da una lastra se il soggetto è affetto dal covid o no. ma ci sono anche algoritmi di simulazione, per capire come la pandemia si possa sviluppare nel tempo. per il contrasto mondiale alla pandemia lavorano epidemiologi ma anche esperti di ia. come qualsiasi fenomeno (come il covid) si diffonda in gruppi di persone è materia già sviluppata da chi se ne occupa. poi c’è un’altra questione cruciale. la pandemia ha accentuato il tema di come accompagnare ai dati il loro significato. tutti si accorgono che non basta collezionare dati, bisogna capire come interpretarli. questi errori sui dati legati alla pandemia che vediamo ogni giorno sono la dimostrazione che c’è da lavorare anche su quel fronte. sto parlando di tecnologie semantiche con le quali, dopo avere raccolto una ingente mole di dati, le macchine spiegano come interpretarli.

Si possono fare previsioni su eventuali sviluppi dell’Ia?

Molto spesso nei media si discute dell’ipotesi che in futuro le macchine potrebbero superare l’intelligenza umana. Non è tempo per fare previsioni, è tempo di prendere il problema dell’Ia nella sua totalità. Queste sono tecnologie in genere in mano a privati e forse è il caso di ragionare se sia necessario avviare un percorso istituzionale per regolamentare questa materia. L’UE si sta muovendo, ma non mi sembra il caso di fare previsioni su quando gli scenari potrebbero cambiare completamente se dovesse arrivare una regolamentazione. Sicuramente l’Ia, ad ogni modo, avrà sempre più un impatto sul lavoro, ma nel senso di una sua trasformazione.













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