L'INTERVISTA amedeo balbi 

Quando la scienza è di frontiera guarda alle stelle 

Libri. In biblioteca l’astrofisico romano che studia la storia dell’universo per un racconto straordinario che comincia 14 milioni di anni fa Dal Big Bang alla materia oscura, l’incontro per chi ha sete di conoscenza


sara martinello


merano. Dell’universo sappiamo molto. Ne conosciamo l’età, la struttura, sappiamo che cosa contiene e come ha fatto a evolvere in uno spazio disseminato di galassie, stelle, pianeti. Ma la nostra è una conoscenza recentissima, ancora densa di interrogativi. A parlarne sarà Amedeo Balbi, professore associato al dipartimento di Fisica dell’Università di Roma Tor Vergata, che domani sera sarà ospite della Biblioteca civica per presentare il suo ultimo libro, “L’ultimo orizzonte. Cosa sappiamo dell’universo” (Utet, 2019).

Astrofisico, divulgatore scientifico e saggista, Balbi è noto al grande pubblico per le partecipazioni televisive e radiofoniche, per gli inviti a festival di rilievo (il Festival della scienza di Genova e quello di Roma, Wired Next Fest, il Salone internazionale del libro di Torino, TEDxRoma), per i numerosi articoli su testate come la Repubblica, Il Manifesto, La Stampa, Il Fatto Quotidiano. Senza contare periodici d’eccellenza come Le Scienze e Micromega.

Le sue pubblicazioni divulgative cominciano nel 2007 con “La musica del big bang” (Sperling Verlag). Il volume che domani darà spunto a una conversazione con l’autore è la sua settima opera nell’ambito della comunicazione scientifica al grande pubblico.

Da scienziato, quale potrebbe essere il valore della divulgazione? E che cosa possiamo riceverne noi profani?

La divulgazione è tra i compiti dello scienziato: di solito la comunicazione dei dati, parte integrante del lavoro, avviene tra colleghi, ma è importante trasmettere il valore della conoscenza. Al di là del fatto di poter ispirare nei più giovani una carriera scientifica. Oggi è possibile e necessario avere una consapevolezza di come la scienza funzioni, quindi volersene tenere all’oscuro è un po’ come essere “analfabeti”.

Per Merano poter ospitare qualcuno che lavorato a Berkeley con il premio Nobel per la fisica George Smoot è un’occasione molto più rara che per altre realtà più grandi e centrali. Come ci possiamo preparare all’incontro?

Innanzitutto, per dialogare bisogna mettersi d’accordo su un vocabolario comune. Serve voglia di dialogare, di confrontarsi. Se davanti a me c’è qualcuno che pensa che qualcosa da imparare ci possa essere, qualcuno con la mentalità giusta, sono più che felice di andare incontro alle sue curiosità.

Insomma, davanti a un terrapiattista cambia marciapiede?

No, anzi, smontare la disinformazione può essere interessante e utile, ma solo se non è uno scontro fine a se stesso. C’è chi parte dall’assunto di non avere nulla da imparare: ecco, credo che il lavoro più importante sia quello con la maggioranza delle persone, quelle che stanno “nel mezzo” e sentono curiosità nei confronti dei progressi scientifici. Da parte degli scienziati non c’è voglia di convincere, bensì di trasmettere.

Lei trasmette la storia dell’universo. Sul cosmo l’uomo si interroga da quando è nato, però gli strumenti per scoprire che anche l’universo ha una storia sono arrivati in tempi recenti.

Che l’universo abbia una storia l’abbiamo scoperto solo pochi decenni fa, fino all’inizio del secolo scorso non c’erano gli strumenti matematici e fisici. E non era chiaro che ci fosse stata un’evoluzione. È qualcosa che l’umanità insegue da molto tempo, e nel mio ultimo libro cerco di ricostruire ciò che abbiamo capito e come abbiamo fatto. È importante dare al lettore le coordinate per fargli capire come funziona la scienza, cioè mettendo insieme indizi e prove per arrivare a un quadro. Un quadro che non è mai certezza dogmatica, perciò stabiliamo la misura in cui ce ne possiamo fidare. C’è una scala di grigi, nelle cose che abbiamo capito: il libro apre alla curiosità, a un processo di investigazione.

E quali sono le frontiere di questo processo? Abbiamo un’idea di quello che potremmo vedere?

Direi che abbiamo una vaga idea di quello che ci piacerebbe scoprire. Per esempio, di che cosa sia fatto il 95% dell’universo: c’è qualcosa di materia oscura e di energia oscura di cui attraverso l’osservazione abbiamo una traccia, un sentore. O, ancora, il Big Bang: è un modello, al di là della vulgata non abbiamo ancora un quadro teorico definitivo.

Chiaramente quel “noi” è la comunità scientifica internazionale, e l’Italia paga il fio dei tagli all’istruzione e alla ricerca.

Ricerca e disponibilità economica vanno di pari passo. Oggi, accanto agli Stati Uniti e ai paesi europei più ricchi, si stanno affacciando a questo ambito anche Cina e India. I paesi astuti sanno che gli investimenti in ricerca e tecnologia hanno ricadute importanti. E noi, in Italia, siamo bravi a trovare ragioni di orgoglio nazionale quando queste persone ormai sono andate avanti per conto loro. Fortunatamente però la scienza non ha bandiere e svolge un ruolo duplice, culturale da una parte e di progresso delle conoscenze dall’altra. Forma esseri umani più consapevoli: per la scienza certe chiusure sono inconcepibili.

Un aspetto che tocca anche la salvaguardia del pianeta.

L’universo ha quasi 14 miliardi di anni e noi siamo arrivati da poco. Tendiamo a considerarci gli abitanti di un pianeta di cui siamo corpo estraneo, quando invece ne siamo parte, dal pianeta ci siamo nati. E siamo interconnessi, quindi vediamo le conseguenze dell’intervento umano. Il contributo dell’astrofisica è quello di mettere le cose nel giusto contesto e di essere quindi consapevoli dell’habitat.

Amedeo Balbi sarà alla Biblioteca civica domani sera, alle 20.30, per l’incontro a ingresso libero “L'ultimo orizzonte. Cosa sappiamo dell'universo”.

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