Empatia al potere in zona Gianni Minà il “boxeur latino” 

Libri e dintorni. Uno dei simboli del giornalismo italiano allo specchio tra passioni e amicizie Sport, musica, America Latina, ma anche Maradona, Muhammad Ali, i Beatles e Fidel Castro  Ecco «Storia di un boxeur latino», una dichiarazione d’amore alla vita e agli ideali d’altri tempi


Paolo Moiola


L’empatia è un dono prezioso. Gianni Minà, giornalista, scrittore e documentarista tanto conosciuto da rendere inutile ogni presentazione, ha fatto di essa un connotato quasi fisico come lo sono, da sempre, i suoi inconfondibili baffi o i suoi occhialetti. È certamente questa sua empatia che gli ha permesso di portare davanti a microfoni e telecamere un numero impressionante di personaggi dello sport, della cultura, dello spettacolo, della politica. Quando nel 1992, durante la sua trasmissione «Alta classe» su Rai Uno, un Massimo Troisi in forma smagliante disse «Invidio quest’uomo per la sua agendina telefonica», quella dell’attore napoletano fu una battuta geniale, ma era anche un dato di fatto.

Abbiamo raggiunto Gianni con la scusa di parlare del suo ultimo libro, bello fin dalla copertina, intrigante fin dal titolo: «Storia di un boxeur latino» (Edizioni minimum fax, 2020). Minà, il boxeur latino, espressione coniata per lui da Paolo Conte, è un classe 1938, forse un po’ fiaccato nel fisico, ma nello spirito vivace come un ventenne che vuole farsi strada nel mondo del giornalismo.

Chiuso nella sua casa di Roma, con le donne della sua vita: Loredana Macchietti, moglie ma anche giornalista e manager del marito, e le due figlie (la terza vive in Messico). «Dubito che con il Covid l’uomo migliorerà. Non si parla abbastanza di Antropocene, un mondo che è cambiato radicalmente e velocemente proprio a causa dell’azione nefasta dell’uomo sulla Terra. Non abbiamo ancora capito che, se continuiamo così, non finirà il mondo, che è capace di autorigenerarsi, ma finirà l’esistenza stessa dell’uomo. Bisognerebbe ottimizzare le poche risorse per vivere più aderenti alla natura. Gli indigeni delle tribù latinoamericane ce lo stanno dicendo da anni: occorre scegliere il “buen vivir”. Ma è con il loro sterminio e la distruzione della foresta amazzonica, ad esempio, che stiamo rispondendo».

L’amicizia con Maradona

Da Muhammad Ali (Cassius Clay) a Pietro Mennea, tanti campioni dello sport hanno instaurato rapporti speciali con Gianni Minà, un giornalista capace di trasformarsi in amico e confidente. È stato così e forse di più anche per Diego Armando Maradona, da lui difeso sempre e comunque. Eppure, alla sua morte (il 25 novembre 2020), per molti versi oscura, Minà è rimasto quasi in silenzio. «Diego è stato triturato da un sistema che lo ha spremuto fino all’osso. Mi sono sottratto al vergognoso circo mediatico riproponendo un mio articolo che Loredana ha postato sulla mia pagina Facebook. Si fa fatica a pensare che il silenzio è una forza potente, a volte è l’unica arma che ridà dignità alle persone scomparse».

Nel giornalismo l’obiettività è un mito. Gianni Minà è sempre stato considerato un giornalista schierato, militante. Vero, ma lo ha fatto senza sotterfugi: prima la realtà dei fatti e il racconto dei protagonisti, poi le opinioni. «Non ho mai avuto una tessera politica, né ho mai ambito ad averla. Io sono una persona che è stata educata dai salesiani. Ho capito da che parte stare quando ho visto la miseria, umana e fisica: quella dei bambini di San Paolo che mi ha fatto conoscere Frei Betto; quella dei profughi lungo i confini tra Chiapas e Guatemala che mi ha mostrato Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace 1992; quella in Africa, durante la visita del papa Paolo VI; quella di Cuba, subita per via dell’embargo degli Stati Uniti. Se stare dalla parte di chi vive nella miseria vuol dire essere di sinistra, allora io sono di sinistra».

Una sinistra che, in Italia, è sicuramente minoranza, oggi più di ieri. «Sì, l’Italia è sempre stato un paese conservatore, per motivi storici, soprattutto. Tuttavia, in questo momento, si può essere di sinistra stando dalla parte dei 5 milioni di poveri che la crisi strutturale del nostro sistema economico, aggravato da questa pandemia, ha prodotto. Non credo che sia una questione di moda, è una questione di occhi: non li puoi chiudere. E noi giornalisti, noi operatori culturali abbiamo un obbligo, che è quello di raccontare, di costruire legami con fatti apparentemente slegati tra loro, ma soprattutto di non far dimenticare la storia».

Le narrazioni alternative

Dalla musica a quella allo sport e all’America Latina, Gianni Minà ha lavorato (e continua a farlo) sulle proprie passioni. Forse per questo è riuscito a dare anima e cuore al suo giornalismo. «Mi ha divorato un’insaziabile curiosità su tutto, per cui mi è impossibile dire cosa mi sia piaciuto di più a osservare, raccontare, cantare… È un po’ la domanda rivolta alle madri, quando si chiede loro a quale figlio vogliono più bene». Se la musica e lo sport sono stati i suoi primogeniti, l’America Latina è stato l’ultimo. La lista degli amici latinoamericani è lunghissima e comprende nomi di peso mondiale: Luis Sepúlveda, Gabriel García Márquez, Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano, Jorge Amado. Tutti ospiti della sua rivista Latinoamerica, una bellissima creatura morta troppo giovane. «Il sistema unico non permette una narrazione alternativa. Quindici anni di rivista mi hanno fatto guadagnare solo sette recensioni. Così non c’è pluralità di informazione. Noi viviamo in un sistema drogato da molto tempo, purtroppo, e una delle armi che hanno a disposizione è l’oblio. Se nessuno parla di te, non esisti. E se non esisti, quello che scrivi o dici non ha peso specifico. E il giornalista medio, fragile in un sistema così rigido, non ha la forza di parlare di altro o in un altro modo. Addirittura arriva all’autocensura per non incappare in problemi».

Cuba, il Venezuela e gli USA

A proposito di autocensura, i critici hanno rinfacciato a Minà di essere sempre stato troppo filocastrista, a partire dalla prima, lunghissima intervista a Fidel (1987), seguita anni dopo (2003) da quella a un altro leader, Hugo Chávez, presidente di quel Venezuela che oggi dalla maggioranza è descritto come una dittatura.

«È un Paese che sta resistendo eroicamente nonostante il Covid, la povertà, la crisi economica. Il dramma è la politica della nostra Unione europea, miope verso quei paesi dell’America Latina. Ma d’altronde lo è/era anche con Cuba, quindi non è cambiato quasi nulla. Quanto agli Stati Uniti passati da Trump a Biden, mi ricordo Fidel Castro: quando venne eletto Obama, lui mi disse: “Cambia il colore, ma non la politica”. Con questo nuovo presidente, la penso esattamente come Fidel».

Per la RAI Gianni Minà ha condotto trasmissioni molto popolari, tra cui l’innovativa Blitz (durata tre stagioni). Se non fosse stato messo alla porta nel 1996 per un lunghissimo periodo, probabilmente ne avrebbe fatte molte altre. Lui però non vuole domande ipotetiche perché si è imposto di non pensare con il «se». «Ho sempre avuto un rapporto leale con l’Azienda (con la “a” maiuscola). Non sono stato ripagato con la stessa moneta, ma devo dire che non lavorare con la RAI mi ha permesso di fare le interviste più belle della mia carriera lavorativa».

«Forse sono da rottamare»

Dalle pagine di «Storia di un boxeur latino» esce un modo di fare giornalismo vecchio stampo: scarpinate, ricerche di biblioteca, attese di risposte. «Mia moglie Loredana è sempre stata attenta all’evoluzione tecnologica. Mi ha raccontato che nel 1978, quando fece la maturità, portò Lettere e Informatica quando ancora i computer non c’erano. Lei è sempre stata convintissima delle potenzialità digitali, mentre io ho sempre frenato su questa espansione delle modalità lavorative. Anzi, non ci ho mai creduto. Eppure, internet ha inevitabilmente cambiato il modo di fare giornalismo (anche se ci scordiamo troppo spesso che è nato come strumento militare). Ora, a mio giudizio, si rischia veramente molto perché non si riesce più a capire la fonte prima della notizia. Oggi siamo come avvolti in una sorta di bolla dell’informazione: ognuno di noi la sceglie in base a quello che vuole sentirsi dire. E questa deriva favorisce un modo di essere giornalista agli antipodi di come lo intendo io. Ma forse anch’io sono da rottamare, proprio come un vecchio… computer».

Francesco, un paradosso

Minà, torinese, ha studiato dai salesiani (scuole elementari e medie). È legato da una lunga amicizia con il noto teologo brasiliano Frei Betto. Nel suo ultimo libro compaiono quattro pontefici: Paolo VI, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Francesco. È sicuramente l’ultimo quello che sente più vicino e non soltanto perché è il primo papa latinoamericano o perché ci ha girato un documentario («Papa Francesco, Cuba e Fidel», 2016). «Francesco rappresenta un paradosso: lo amano soprattutto i non cattolici, i laici, mentre all’interno della Chiesa è inviso. Speriamo che faccia come il povero d’Assisi, San Francesco, che risollevò la Chiesa dell’epoca. Ma i tempi sono particolarmente duri».

Forse oggi Massimo Troisi non avrebbe modo di invidiare a Gianni Minà l’agenda telefonica con i numeri di mezzo mondo. «E come no! Ho appena comprato la mia agenda cartacea. Non mi sono mai fidato della memoria elettronica».













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