LIBRI

Enzo Fiano: «Io, figlio di Auschwitz e delle leggi razziali»

Il libro del figlio di Nedo Fiano, sopravvissuto al lager,  “Charleston. Storia di una grande famiglia travolta dalla Shoah”. Le vite inghiottite dalla persecuzione


Paolo Campostrini


Bolzano. Il charleston è un ballo sincopato. Ci si muove a scatti, ci si gira, si alzano le gambe, le ragazze alzavano pure le gonne. Era anche il luogo della possibile libertà per l’Italia che pensava che l’America potevamo essere anche noi, nonostante tutto. Il ministro della guerra di Mussolini, intorno agli anni Trenta decide di bandirlo, ma non troppo: “I signori ufficiali non possono ballarlo, non è consono alla divisa”. Ma le ragazze possono. In quell’Italia in camicia nera è la musica di una giovinezza che non è quella cantata nelle adunate. Si può chiamare “Charleston” un libro che sta dentro le vite rubate degli ebrei italiani, che scivola lungo i loro viaggi senza ritorno, famiglie strappate e amori senza un domani?

Può, se ci entra proprio in mezzo a quei destini. “Ci sentivamo italiani” dicevano i pochi sopravvissuti. Tanti erano anche fascisti. Avevano combattuto la grande guerra, erano patrioti. Ecco, Enzo Fiano, figlio di Nedo Fiano, uno che ha visto tutto e tutto ha raccontato, parte da lì, da quel ballo. Dice di Nedo la moglie, mamma di Enzo: «Tutta la vita l’ho seguito, l’ho consolato, anni e anni a raccontare di Auschwitz. Che fosse caldo o freddo, che si stesse al mare o tra i monti, che ci fosse il sole o scendesse la neve ho fatto fatica a seguirlo nelle scuole, nei convegni, nelle città tra gli italiani di oggi». La fatica di non smettere mai. Enzo Fiano è un musicista. È presidente del conservatorio di Como, ha studiato lettere a Gerusalemme, adesso sta a Milano. “Charleston” sembra scritto sulle note. Rincorre le storie e i destini di una grande famiglia e li scompone in undici variazioni. Si sente, il charleston. Siamo a Forte dei Marmi. Le estati sembrano non finire mai. Ci sono fanciulle in fiore e ragazzi in cerca della vita. Si spiega anche così lo stupore di intere generazioni di ebrei italiani. L’incredulità di fronte ad uno scarto così profondo. Come se si arrendessero al destino, le leggi razziali mussoliniane, perché non si capacitano di un irrompere così irrazionale della storia nelle loro storie.

Il libro è come un drone che passa sopra, in volo, a quelle vite, prova ad accompagnarle con una colonna sonora, forse un pianoforte, quello su cui si esercita Enzo da bambino. O invece è un violino che sta accompagnando i fantasmi di quegli italiani verso le camere a gas? Si chiama “Charleston. Storia di una grande famiglia travolta dalla Shoah” il libro (Guerini editore e che sarà presentato da Fiano in dialogo Luca Fregona, caporedattore dell’Alto Adige, lunedì 5 dicembre alle 18 alla Biblioteca Civica di Bolzano, e con l’accompagnamento musicale a cura della Scuola di musica in lingua italiana A. Vivaldi) per via di una contrapposizione profonda con gli eventi narrati. Come se il ritmo di fondo, di quelle estati versiliane, potesse ancora tenere in piedi una possibile speranza, che indicasse il senso di un sorpresa, la sospensione dolorosa che precede sempre la tragedia ma che consente di aspettarla comunque in vita. Dice di sé Enzo Fiano: «Sono un ebreo ateo. E non ateo e basta. Perché con ebreo non identifico una sfera religiosa, quella della Torah e di Mosè, ma il fatto di essere figlio di Auschwitz». È quello il passaggio. Che salda la fede alla vita, che tiene insieme esperienze indicibili. Visto che ora, alla fine di tutto, insiste: «Siamo tutti figli della Shoah». Quel trauma non ha segnato solo gli ebrei che credono, anche quelli che no ma pure noi, visto che ad Auschwitz in tanti hanno visto la morte di Dio oltreché la nostra. Scrive Fiano: «Nel cammino attraverso i ricordi rischiamo di buttarci addosso immagini e situazioni che non sappiamo più capire, che non sappiamo più se siano nostre intuizioni o falsificazioni, invenzioni o realtà». È lo stesso stupore incredulo che colse tanti sopravvissuti. Primo Levi decise di non parlarne per anni. Per pudore intellettuale o perché nessuno avrebbe potuto credere che quello che era accaduto fosse accaduto i realmente. Per tanti che hanno letto “Charleston”, Finzi non avrebbe scritto un libro, lo avrebbe “composto”. Come una sinfonia. C’è un continuo incrociarsi tra fantasia e realtà, tra l’immaginario musicale di un bambino rapito dal pianoforte e un uomo che ha ascoltato il padre raccontare Auschwitz e la mamma sfinirsi nell’insistenza delle civili testimonianze. E sempre quel rincorrersi del “ci sentivamo italiani”, quello stupore attonito nel non essere più riconosciuti come tali, il disfacimento delle famiglie. Nel libro, il nonno di Nedo, tra la vergogna e il peso di una realtà che schiaccia anche le menti più vive, confessa al figlio di “potergli comprare solo un pasticcino”. Un unico dolce e più altro. Traumi infantili e consapevolezze adulte corrono in decine di vite di una famiglia con tanti rivoli, dai cugini agli zii, ai nipoti (la prefazione è di Andrea e Emanuele Fiano, l’ex parlamentare dem) che traccia il senso dell’Italia travolta dalla dittatura. E di chi subisce in prima linea il male, gli ebrei, e se lo porta sulle spalle anche adesso, lungo le generazioni. Il libro è tutto meno che retorico. Non da lezioni, le porge. E aspetta. È un disperato impegno per non dimenticare. Nel finale, Enzo Fiano prova a dare il segno di un percorso: «C’è adesso un bisogno del quotidiano, per non avere intorno i fantasmi ma c’è anche il terrore che il fascismo possa riprendere vita. Anche in modo nuovo. Subdolo e antico». E ancora: «La paura che ritorni, il fascismo, fingendosi “altro”. E distruggendo come sempre tutto quello che può». Questo è “Charleston”. (p.ca.)













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