I 75 anni di Lynch, vero guru dell’arte visiva

New york. Lo hanno definito l’ultimo uomo del Rinascimento, l’autentico surrealista americano, il regista più misterioso di Hollywood. In realtà nessuna definizione si adatta al talento di David...



New york. Lo hanno definito l’ultimo uomo del Rinascimento, l’autentico surrealista americano, il regista più misterioso di Hollywood. In realtà nessuna definizione si adatta al talento di David Keith Lynch, nato a Missoula, nel Montana il 20 gennaio 1946, che oggi compie 75 anni. Difficile indicarlo “solo” come regista.

A 20 anni è a Philadelphia per frequentare l’accademia di belle arti. La pittura è la sua passione, durante il liceo ha imparato il disegno alla Corcoran School di Washington, ritiene Francis Bacon «un eroe, il più grande artista moderno» e si ispira a Oskar Kokoschka. A Philadelphia si appassiona però all’immagine in movimento e come saggio di fine corso presenta il corto “Six Figures Getting Sick”. Da qui comincia per lui un’avventura ancora oggi avvolta nel mistero: sbarcato a Los Angeles, nel 1971, usa una borsa di studio dell’American Film Institute per le riprese del suo primo lungometraggio. Ci vorranno sei anni perché “Eraserhead” veda la luce. Il risultato viene giudicato impossibile da distribuire ma, grazie all’aiuto di alcuni amici, Lynch riesce a proiettarlo in qualche sala e, con la pellicola in valigia, sbarca in Europa al festival di Avoriaz. La proiezione del film, un incubo surrealista a occhi aperti, girato in bianco&nero e dominato dalla terrificante incarnazione di un feto d’incerta origine, si traduce in un autentico evento. Tutta la sua arte è un continuo travaso di esperienze visuali, meditazione, viaggi nell’inconscio e nelle ossessioni giovanili, come a voler ricreare il tessuto emotivo di una generazione e dell’America profonda. Non a caso i suoi maggiori successi, da “Velluto blu” a “I segreti di Twin Peaks” sono ambientati in piccoli paesini isolati, tra il freddo delle montagne e le grandi pianure del Nord Ovest. La svolta nella carriera da cineasta di David Lynch viene col secondo film, “Elephant Man” (1980) per il quale ottiene l’attenzione di Mel Brooks, che accetta di produrlo: in cambio otterrà ben nove candidature all’Oscar. L’occasione della vita porta però al più grande fallimento di Lynch. Dino De Laurentiis gli consegna l’adattamento di “Dune” di Frank Herbert con un budget da blockbuster; il regista si smarrisce e non sarà apprezzato. Sull’orlo di una depressione, David Lynch porta a De Laurentiis un nuovo copione, quasi come risarcimento; in una cornice da noir classico, mette in “Velluto blu” (1986) tutte le sue ossessioni, i fantasmi dei paesini di montagna in cui è cresciuto, i suoni dell’America anni ’50, la fascinazione del male e delle misteriose dark ladies. Arriva la seconda (di tre) nomination all’Oscar come miglior regista. Tre anni dopo il produttore Mark Frost gli apre le porte della tv con la serie “I segreti di Twin Peaks”: gli americani non avevano mai visto nulla di simile e la serie diventerà il punto di riferimento di tutta la fiction di fine secolo, nonché l'ossessione del regista che tornerà ai suoi personaggi in “Fuoco cammina con me” (1992) e nel nuovo “Twin Peaks” del 2017. Nel frattempo vince la Palma d’oro a Cannes con “Cuore selvaggio”, realizza i più misteriosi noir degli anni ’90 (“Strade perdute” e “Mulholland Drive”), dà sfogo alla sua fantasia surreale con “Inland Empire”, vince un Leone d’oro a Venezia nel 2006. L’Oscar alla carriera del 2019 mette un punto fermo al suo talento. E fuori dal cinema si impone come artista con mostre in tutto il mondo, dischi, video sperimentali e degni. «Le idee - dice di sé -arrivano nei modi più impensati, basta tenere gli occhi aperti».













Altre notizie

Attualità