I nostri “Soldati di sventura” 

La storie dei giovani altoatesini che hanno combattuto in Vietnam con la Legione straniera. Da domani in edicola e in libreria il libro di Luca Fregona che racconta la storia drammatica di due bolzanini e un meranese nell’inferno della Guerra d’Indocina contro i viet di Ho Chi Minh


marzio terrani


Bolzano. Esce domani nelle edicole di tutto l’Alto Adige, nelle librerie e gli store online, l’atteso libro di Luca Fregona, caporedattore del nostro quotidiano, “Soldati di sventura” (Edizioni Athesia, 12,90 euro), la storia di tre ventenni altoatesini che hanno combattuto in Vietnam con la Legione straniera. Il libro parla, infatti, del “Vietnam degli italiani”. Perché prima ancora del “Vietnam americano”, c’è stato il “Vietnam francese”, che è stato, appunto, anche un Vietnam di italiani, tedeschi, belgi, spagnoli, ungheresi... Nel tritacarne della guerra d’Indocina, combattuta dal 1946 al 1954 dai francesi contro l'Esercito Popolare di Liberazione di Ho Chi Minh per mantenere il dominio sulla colonia, sono finiti migliaia di europei, inquadrati nella Legione. Carne da cannone per risparmiare giovani vite francesi dalla “sale guerre”, la sporca guerra. Ma mentre del Vietnam “americano” sappiamo tutto, del nostro, quello “italiano”, sappiamo poco o nulla. È stato completamente rimosso dalla memoria del nostro Paese. «Un calcolo approssimativo - spiega Fregona - stima in settemila gli italiani che hanno combattuto con il Corpo di spedizione francese. Circa 1.300 sono morti in azione, per le ferite o le malattie. Altri centinaia sono rimasti mutilati o hanno riportato traumi psicologici gravissimi; altri ancora sono sopravvissuti alla prigionia nei campi viet». Tra loro moltissimi altoatesini e trentini. «Nel corso delle ricerche - continua - mi sono imbattuto in decine di storie di legionari della nostra regione. I giornali erano pieni di appelli delle famiglie per i figli dispersi, di lacrime per quelli morti, e di lettere disperate arrivate dall’Indocina». Immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la Legione straniera era un approdo naturale per una generazione bruciata dagli orrori (fatti o subiti) della guerra: ex SS, ex fascisti, ex soldati della Wehrmacht, ex partigiani, moltissimi tedeschi (i due terzi), tanti italiani. «Una lunga fila di “ex qualcosa” con molto da farsi perdonare e una vita da ricominciare. Già a partire dal 1946 però, almeno per quanto riguarda gli italiani, il cliché classico del legionario romantico, criminale o dannato, in bilico tra espiazione e redenzione, cambia radicalmente. Non si trattava più di reduci in fuga, ma di giovani, nati dal 1929 al 1932, che scappavano da un nemico più feroce e immeritato: la miseria. Centinaia espatriavano clandestinamente in Francia in cerca di lavoro. Una volta scoperti, venivano messi di fronte a un bivio: galera (e poi il rimpatrio forzato) o Legione». Molti accettavano l’ingaggio semplicemente perché non avevano scelta. «Era comunque un lavoro con una paga. Alla fine della ferma di cinque anni, si otteneva la cittadinanza francese con la promessa di un’occupazione dignitosa. Implicita - sottolinea Fregona - pesava però una clausola non indifferente: dovevano prima sopravvivere. Quei giovani, ex minatori o clandestini, sapevano poco o nulla della Legione, delle sue regole, della brutalità; ignoravano che l’ingaggio (incoraggiato dalle autorità francesi), fosse un biglietto per l’inferno. Una lotteria con la morte».

La storia. È in questo contesto storico e umano, che si sfiorano (senza mai incontrarsi) le vite dei tre protagonisti del libro. «Racchiudono il dramma e la solitudine - continua Fregona - di una generazione risucchiata dalle scorie tossiche della seconda guerra mondiale, e poi risputata con violenza e cinismo nelle paludi del Tonchino e sulla terra desolata di Dien Bien Phu. Ho scritto “Soldati di sventura” perché non sopportavo l’idea che queste tre storie, che avevo raccontato sul mio giornale con la sintesi di un articolo, andassero perdute. Non volevo lasciarle andare. Questo non è un libro di storia, né un saggio sul colonialismo e neanche un romanzo. Io non sono uno scrittore, sono un giornalista. Avevo però la necessità di fissare ancora una volta sulla carta, come una fotografia indelebile, Beniamino, Rudi, Emil».

I protagonisti

Beniamino “Beni” Leoni, bolzanino del quartiere Don Bosco, ex partigiano, si è arruolato nel 1947 per evitare il carcere dopo essere scappato dalle miniere francesi dove aveva trovato lavoro nel dopoguerra. Catturato da partigiani viet, “rieducato” al socialismo, ha poi combattuto nel Viet Minh, l’Esercito popolare di liberazione del Vietnam, contro i francesi e la stessa Legione. È stato testimone dei massacri nei villaggi commessi dai legionari. «A Dien Bien Phu era inquadrato nei reparti di artiglieria che colpivano giorno e notte le postazioni francesi. Le sue lettere dal fronte sono state pubblicate anche sull’Unità. Finita la guerra, ha trascorso un anno in un campo in Cina insieme ad altri disertori e ai comunisti italiani volontari nell’armata viet. Nel 1954 si è consegnato ai francesi a Saigon. È stato processato come disertore e radiato dalla Legione».

Emil Stocker, meranese, ha visto nella Legione la via di fuga da una vita che non sopportava più. Un’opportunità per scomparire facendo l’unica cosa che gli veniva bene: il soldato. Si è arruolato nel 1951 a 22 anni. È rimasto in Indocina per 4 anni, prolungando volontariamente la ferma. Ha combattuto contro i guerriglieri viet nelle risaie e nella giungla, risalendo a piedi il delta del fiume Rosso. È stato testimone di atrocità che gli hanno fatto rimettere in discussione il concetto di onore e il ruolo del soldato. A Dien Bien Phu è rimasto asserragliato nella ridotta Beatrice. «Della sua compagnia sono sopravvissuti in due su 120. Dopo la capitolazione dei francesi, è stato tra gli ultimi legionari a lasciare Hanoi; ha assistito al passaggio della città al Viet Minh. È tornato dall’Indocina con centinaia di foto. Mi ha affidato gli album con le foto a metà febbraio 2020, poche settimane prima di morire di Covid a 91 anni. Sapevamo entrambi che era l’ultima volta che ci saremmo visti. Un selezione è pubblicata nel libro».

Rodolfo "Rudi" Altadonna, bolzanino di Oltrisarco, si arruola nella Legione nella primavera del 1953 come estremo atto di ribellione dopo un’infanzia durissima. Suo padre, pur essendo di madrelingua italiana, nel 1939 decise infatti di optare per la Germania. La famiglia Altadonna si trasferì ad Augsburg, in Baviera, dove cambiò il cognome in Springer. Rodolfo divenne Rudolf, il fratello Guglielmo, Wilhelm. Nell’aprile del 1945, Rudi viene spedito all'arma bianca contro i soldati americani che occupano la città. Dopo la guerra e un lungo e difficile rientro in Italia da apolidi, lascia la famiglia in attrito con il padre. Senza dire niente a nessuno, nell’aprile 1953 sale su un treno per Marsiglia. Firma per la Legione. Una decisione di cui si pente subito. Finito l’addestramento in Algeria, nel gennaio 1954 viene mandato in Indocina e paracadutato a Dien Bien Phu. Una missione suicida. Viene ucciso il 21 aprile 1954 a 24 anni. I suoi resti sono andati perduti.

Memoria e racconto- «Ho inserito alcuni espedienti narrativi - continua Fregona - per far scorrere la trama, ma senza toccare la verità dei fatti così come li ricordavano loro. Una verità di cui ho trovato dettagliati e sorprendenti riscontri nel lavoro di ricerca per la pubblicazione. Potevano sbagliare una data, il nome di un fiume o di un compagno morto, ma non il succo di un episodio vissuto. La guerra lascia addosso un odore che non va più via».

Il titolo, “Soldati di Sventura”, «è un omaggio a Enzo Biagi, riprende il suo omonimo documentario girato per la Rai su alcuni ex legionari mercenari in Africa. È un titolo perfetto. Cos’altro è, se non sventura e mala sorte, una giovinezza sacrificata, divorata dalla crudeltà, dallo stress, dall’orrore, e dall’immoralità della guerra?». Il volume è edito dalla casa editrice Athesia: «È il frutto di un progetto più vasto sul recupero delle “storie perdute” avviato con l’editore, insieme al direttore dell’Alto Adige Alberto Faustini, a Claudio Andolfo della Ripartizione Cultura Italiana della Provincia e al TreviLab. Mi preme sottolineare che gli album di Stocker sono stati consegnati alla Biblioteca Claudia Augusta e alla direttrice Valeria Trevisan, che ha provveduto alla digitalizzazione e alla conservazione delle foto, mettendole a disposizione di tutti».













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