“I prati dopo di noi”, la distopia firmata Matteo Righetto

Freschi di stampa. Venerdì scorso la presentazione ufficiale del suo nuovo romanzo Il libro è ambientato in una immaginaria Val Venosta, in cui però o nomi dei luoghi sono reali «Protagonisti sono un vecchio, un gigante e una bambina. Non li scorderete facilmente»


Carlo Martinelli


Bolzano. I prati dopo di noi ci saranno solo se le api vi potranno volare sopra. Che il termometro della salute del nostro malaticcio ambiente abbia a che fare anche con la salute delle api, è risaputo. Attiene alla scienza. Attiene invece alla letteratura, alla buona letteratura, saper trasferire i temi ambientali (che brutto, detto così…) nelle pagine, ad esempio, di un romanzo. È quello che è riuscito al meglio a Matteo Righetto, voce sempre più convincente ed originale. Il suo “I prati dopo di noi” (Feltrinelli, 174 pagine, 15 euro) è la conferma di un talento che avevamo amato in modo incondizionato all’esordio di “Savana Padana”, otto anni fa. Poi il nostro - docente di Lettere, una vita tra Padova e le Dolomiti - ha messo in fila una serie di titoli: successo crescente, riduzioni cinematografiche, traduzioni in molti Paesi. Il suo cuore narrativo rimane sempre la montagna, Le nostre montagne, verrebbe da dire. Per dirne una: “I prati dopo di noi” vede i suoi protagonisti (il vecchio, il gigante, la bambina: non li scorderete tanto facilmente…) aggirarsi in località che si chiamano Parcines, Senales, Ortles, Alpi Venoste, Alpi Retiche, il monastero di Marienberg. E non è certo solo perché nel 2019 ha ricevuto il Premio Speciale Dolomiti Unesco che Matteo Righetto ha scelte le nostre rocce e le nostre valli come fondale dei suoi romanzi. Chi voleva ha potuto chiederglielo venerdì scorso a Rovereto alla Libreria Ubik Arcadia. Purtroppo, visti i tempi difficili legati al Covid, soltanto in streaming. Perché questo suo romanzo intriga. Sorretto da una scrittura nitida, attenta, precisa, persino minuziosa nelle descrizioni della natura. Percorso da una attitudine avventurosa che è l’altra cifra del suo percorso di narratore. Siamo nel futuro, in un futuro non precisato ma, temiamo, assai vicino. Il clima è cambiato, troppo. La neve la si trova solo in alta, altissima quota. Le temperature sono sempre meno sopportabili. Dalle pianure assolate e riarse arriva l’eco di incendi, il fantasma di Nuovi Barbari. E se le pianure arroventate sono in fiamme, la montagna rappresenta l’ultimo, precario, rifugio. In un monastero alle pendici dei monti (dove è stato portato, in pratica abbandonato, dal fratello) vive Bruno, un ragazzo gigantesco, tanto goffo quanto sensibile, particolarmente legato agli animali minuscoli. Gli viene affidata la cura degli apiari, fondamentali per il miele, la propoli, l’idromele, gli unguenti e la cera delle candele. Ma le api sono preziose anche perché è grazie a loro che la natura può rigenerarsi: Bruno ne diventa fedele custode. Sulle Alpi vive anche il vecchio Johannes. Convinto che il pianeta stia per soccombere a causa dell’avanzata dei nuovi barbari, parte per l’Ortles, la montagna sacra che la leggenda vuole abbia un tempo ospitato in perfetta armonia uomini, animali e piante. Nel cammino verso il sacro monte, Johannes e Bruno sono destinati a incontrarsi fra loro e con Leni, una bambina sordomuta rimasta sola al mondo. Un terzetto che campeggia sulla copertina del libro e che si propone anche come sicuro soggetto cinematografico. Non si dirà di più della trama: quelli di Righetto sono appunto romanzi che sposano avventura e natura. La tentazione, per questo sua recente fatica, è stata quella di definirla come una sorta di favola ambientale o ecologica che dir si voglia. Intervistato, Righetto si è così espresso: «I nomi sono tutti reali, a partire dalla Val Venosta. Anche se poi le descrizioni non coincidono. Volevo ancorare alla realtà questa storia, per cui tutte le piante, tutti gli animali sono descritti fedelmente e coincidono con il territorio che descrivo. Dall’altra parte c’era la necessità di quella distopia, quella discronia che rende universale la storia. Parlerei di una sorta di realismo magico nordico, anche se poi i riferimento letterari sono molto variegati e vanno da Bergman a Juan Rulfo, da Agnon a Sepulveda, da Calvino a Cormac McCarthy. C’è anche un po’ del mio amato West. L’immagine intorno a cui ho costruito il libro è quella del vecchio che tira il carretto con la bara vuota. Una immagine da western».

Però questo suo viaggio nel futuro prossimo venturo (se non ci diamo una mossa, ancora più prossimo) è altro, è di più. Storia simbolica, certo. Ma il Grande Rivolgimento, il tentativo di raccontare il male che gli uomini negli anni hanno causato al creato, l’inquietudine trasmessa dal racconto (le partite a dama di Johannes nelle tetre locande future dell’Alto Adige evocano immagini à la Bergman, il fumo acre che arriva dalle pianure alla montagna ricorda gli scenari fantascientifici e apocalittici di Ballard) dicono che “I prati dopo di noi” è una dichiarazione d’amore all’ambiente e un monito. Lontani da tiritere ideologiche. Vicini all’umanità ora dolente ora vitale, ora spaventata ora speranzosa dei tre viandanti che su un carretto tirato da un mulo cercano di raggiungere l’Ortles. Con un bel po’ di api al seguito, verso l’ultima neve del pianeta. Voglia il cielo (anzi: vogliano gli uomini) che ci siano questi prati dopo di noi, attraversati dalle api in estate, coperti dalla neve in inverno. Risparmiati dal fuoco cui Bruno, Johannes e Leni cercano di sfuggire.















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