Inquieti, contaminati e felici 

Architettura. L’ultimo numero della rivista Turris Babel si intitola, con una certa dose di consapevole ironia, “SuperSüdtirol” il direttore Alberto Winterle: «C’è ormai la sensazione che ad accumunare tanti progetti diversi sia una linguaggio comune e riconoscibile»


Paolo Campostrini


Bolzano. Una volta c’ era il cubo. Oddio, c’ è ancora, ma non è più solo: dalla scatola al tetto a capanna. E poi via, a far entrare il paesaggio, a citarlo, a provare nuove strade. L’ architettura altoatesina è così: molto inquieta. E soprattutto molto contaminata. Si regge sulla solidità del design italiano e poi accoglie le correnti fredde ma rigorose dal Nord Europa. Guarda al nuovo classico contemporaneo che ripulisce gli orizzonti e poi coglie le intuizioni dell’ architettura territoriale nei suoi elementi portanti e immutabili. Evita, come in uno slalom le tentazioni del folclore neobavarese delle finte baite piene di gerani per andarsene sui confini. Ma sempre con un certo rigore. Sarà per questo che, forse unico esempio “provinciale”, è diventata un caso di scuola? «Forse perchè, pur dentro singole esperienze ,sembra ormai di vedere un tratto comune. Che è la qualità del contemporaneo» prova a spiegare Alberto Winterle che dirige Turris Babel, la rivista degli architetti altoatesini, il cui ultimo numero è stato presentato nei giorni scorsi alla Fondazione Dalle Nogare dentro un edificio esso stesso citato nel numero e progettato da Angonese e Marastoni.

Come si intitola l'ultimo numero della rivista?

SuperSüdtirol.

Non è un po’ troppo, architetto?

Mah, c’è dell'ironia naturalmente. Ma si è provato anche a raccontare tanto di nuovo.

Presunzione?

C’è la coscienza di aver tracciato strade abbastanza singolari, ecco. E c’è ormai la sensazione molto consolidata che ci sia un tratto che accomuna. Come se si stesse mettendo insieme un nuovo modo di esprimersi. Un linguaggio abbastanza autonomo.

Ma i progetti non sono univoci. C’è molta diversità...

Certo. Ad esempio in quest’ultimo numero di Turris Babel, raccontiamo il rifugio Sasso Nero, la distilleria Puni a Glorenza, l’Atelier Thaler a Bolzano e poi l’albergo Pfoesl a Nova Ponente, la Fondazione Dalle Nogare e infine il Noi Techpark a Bolzano. Ecco, sono situazioni affrontate da vari punti di vista. Se uno li guarda vede molte diversità. Ma anche un tratto comune.

Come un comune senso di responsabilità verso i luoghi?

Sicuramente il paesaggio, il contesto sono molto presenti nella fase progettuale. E c’è un linguaggio capace di interpretare ciò che circonda i futuri edifici in modo corretto. Una volta la dichiarazione di appartenenza alla modernità era il cubo, la scatola. Quel rigore e le geometrie hanno costruito la base ma poi si è saputo muoversi in modo flessibile, sono arrivati i tetti a falda, gli elementi spinati. Direi che c’è una qualità riconoscibile.

Cosa ha dato la stura a questa ricerca che è diventata una scuola?

Sicuramente i concorsi di architettura. Dove i professionisti hanno potuto misurarsi con la diversità, guardare le altrui soluzioni, mettersi in gioco.

E la committenza?

Altro aspetto fondamentale. Si è capito spesso che l’architettura può essere un valore.

Intende la buona architettura?

Intendo che se se un progetto intercetta sia l’ambiente che la funzione che anche la cultura, il sentire che si sta diffondendo diventa un valore aggiunto, non solo estetico.

Vuol dire anche economico?

E non solo. Anche di marketing. Diventa un messaggio. Penso alle nuove cantine. Fatta una in un certo modo, con determinati criteri di qualità e innovazione, anche i committenti hanno compreso che l’architettura può essere un messaggio preciso che va al di là dell'edificio in se.

Il linguaggio comune è anche accogliere gli influssi di una terra tra nord e sud, in mezzo alle correnti europee?

Sicuramente l’appartenenza degli architetti altoatesini a diverse scuole ha giovato. Si è creato una comunicazione interna di stili e studi che ci ha reso un po’ meno provinciali.

Perchè c’è la sensazione che Bolzano sia un po’ ai margini invece che al centro di questo linguaggio, in quanto capoluogo?

Non del tutto. Ad esempio nella rivista c’è il Noi, dell’architetto Lucchin. Lui stesso una volta fece una riflessione: tanti architetti altoatesini si misurano col paesaggio, col territorio, che pone temi abbastanza semplici, invece la città pone questioni complesse ...

A cosa pensate?

Ai quartieri, ad esempio. Casanova sembrava essere stato un grande messaggio. Poi sono emerse problematiche legate agli spostamenti delle persone, alla loro vita quotidiana, alla solitudine. Voglio dire che la città è un sistema complicato.

Intende dire che a Bolzano oltre all’architettura c’è di mezzo l’urbanistica e un conto è fare una villa su un prato un'altra dei caseggiati in periferia?

Anche questo ma non solo. C’è stata anche una spinta dell’economia verso soluzioni architettoniche semplificate e ripetitive. Mi sembra che si risponda costantemente alle singole emergenze, che pur esistono, senza pensare maggiormente al tessuto urbano, a quello che davvero può rappresentare.

Anche esteticamente?

Anche.

E la committenza pubblica? Detto dei privati, spesso non ha mostrato grande coraggio innovativo?

Il problema è che per i grandi edifici pubblici si è scelto la strada della riqualificazione. Si è lavorato sull'esistente. Tranne poche eccezioni.

E adesso?

La scommessa è il polo bibliotecario. Quello poteva essere una grande spinta.

Parla al passato...

Beh, è così tanti anni che se ne parla... Spero comunque che si faccia presto.

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