Partito Comunista I cento anni “tra le pagine chiare e le pagine scure”

(segue dalla prima) Partito Comunista d’Italia Sezione italiana dell’Internazionale Comunista, poi, allo scioglimento dell’Internazionale Comunista nel 1943, Partito Comunista Italiano. Molti dei...


Guido Margheri


(segue dalla prima)



Partito Comunista d’Italia Sezione italiana dell’Internazionale Comunista, poi, allo scioglimento dell’Internazionale Comunista nel 1943, Partito Comunista Italiano. Molti dei saggi e delle strenne dedicate al centenario, infatti, sono condizionati da un pregiudizio ideologico per dimostrare come il PCI e, addirittura, la sinistra siano state e siano solo un “male” perché la “fine della storia” seguita alla caduta del Muro di Berlino e alla fine del “socialismo reale” nei paesi dell’Est, rende impossibile e controproducente cercare di rendere più giusta la società. Altri ben più seri, come il bel libro di Ezio Mauro, affrontano “le pagine chiare e le pagine scure” di quella storia che tanto ha segnato il nostro Paese in modo critico, ma costruttivo, riflettendo anche sui problemi attuali e sulle soluzioni. Del resto, se la storia del PCI è stata così diversa dalla storia di altri partiti comunisti e non può essere limitata al solo tormentato e contraddittorio rapporto con il “Socialismo reale” e suscita ancor oggi, a quasi 30 anni dal suo congresso di scioglimento, domande, riflessioni, passioni, non solo in chi del PCI ha fatto parte, o in chi lo ha votato, ma anche in chi, per questioni generazionali, è venuto dopo, una qualche ragione ci sarà.

Se si guarda alla nascita del PdCI nel 1921 con il senno di poi e gli occhi di oggi non si può non vedere come la scissione dal PSI, della frazione comunista, che, peraltro, era assai eterogenea, in nome della Rivoluzione Proletaria da estendere a tutta l’Europa occidentale dopo la vittoria della Rivoluzione Russa del 1917 e la nascita dell’Unione Sovietica, fosse fondata su un’illusione ed una grave sottovalutazione dei reali rapporti di forza. Non solo la Rivoluzione era irrealizzabile, ma le divisioni, che non sarebbero finite lì, della sinistra e tra essa le altre forze democratiche, avrebbero indebolito ulteriormente il movimento operaio di fronte alle iniziative delle forze reazionarie e all’avvento dei fascismi in Italia e in Europa come, del resto, aveva intuito Filippo Turati nel suo profetico intervento pronunciato a nome della corrente riformista nel congresso del PSI al Teatro Goldoni prima della scissione. Certo, le divisioni tra riformisti, massimalisti e rivoluzionari (e tra di loro) erano reali e la paralisi che ne derivava bloccava ogni tentativo di dare uno sbocco adeguato alle lotte e alle aspirazioni di giustizia delle masse popolari, dopo i drammi della Grande Guerra e le grandi agitazioni del “biennio rosso”.

Uno dei più acuti ed importanti esponenti storici del PCI, Giorgio Amendola, analizzando la storia del partito arrivò a parlare, della nascita del PdCI come un “errore provvidenziale” nel senso che senza quella difficile nascita e la storia travagliata successiva degli anni ’20 e ’30, non si sarebbe forgiato un gruppo dirigente in grado, pur con gravi limiti, errori e contraddizioni, di costruire una pur debole irriducibile opposizione al fascismo, di costruire un partito di massa di tipo nuovo in grado di dare uno sbocco positivo alle aspirazioni delle masse popolari, di contribuire in modo determinante alla Resistenza antifascista e alla costruzione della democrazia italiana.

Il concetto di “necessità storica” declinato in questo senso da Amendola derivava dalla cultura peculiare che caratterizzava il PCI grazie ad una rilettura dei Quaderni di Gramsci e ad un’interpretazione della storia italiana derivata da pensatori come Machiavelli, Vico, De Santis, Labriola, Croce e Gentile che conviveva, peraltro, nel grande corpo del PCI con altre ispirazioni culturali molto meno riconosciute nella linea culturale ufficiale del partito, ma, comunque, importanti nel non appiattire il “partito nuovo” sull’ortodossia “marxista-leninista” e staliniana. In modo contraddittorio, pur fortemente segnato dalla “Guerra Fredda” e dalla divisione in due del mondo e dell’Europa, il PCI riesce, insomma, a costruire un ampio radicamento nella società italiana e a fondare il suo consenso sull’impegno graduale a realizzare valori della Resistenza e della Costituzione, impegno che convive con le dichiarate finalità rivoluzionarie (la famosa “doppiezza”), ma determina, però, una conseguenza: quella grande comunità, espressione della classe operaia e di suoi alleati, si sente, in modo solidale, interprete dell’interesse generale del Paese e protagonista della costruzione della democrazia italiana.

La funzione pedagogica del PCI nel dare organizzazione, cittadinanza e rappresentanza a masse di popolazione è fondamentale, così come il suo contributo, grazie, appunto, ad un forte radicamento nelle organizzazioni sociali e al governo innovativo degli enti locali, per la diffusione di un senso civico alternativo ai tradizionali vizi della società italiana. Sono questi in sintesi gli elementi che determinano la peculiare storia del PCI e che riescono a prevalere su errori inaccettabili e limiti storici innegabili. Con buona pace di molti il definirsi orgogliosamente comunisti nella versione italiana non era espressione di ortodossia incartapecorita, di vuoto settarismo, o di ribellismi sterili e controproducenti, ma di un’identità ideale fondata su responsabilità civile e istituzionale, senso civico capace, pur da una posizione di opposizione, di promuovere riforme e partecipazione democratica.

Siamo in provincia di Bolzano ed è bene ricordare, per esempio, che la nostra terra deve al PCI il voto determinante per il raggiungimento del quorum dei due terzi del Parlamento e, quindi, evitare che la legge costituzionale di approvazione dello Statuto di autonomia potesse essere sottoposta ad un pericoloso Referendum nazionale dalla destra nazionalista e fascista. Una scelta lungimirante, senza contropartite, contestata da destra e da sinistra, ma assunta con la piena coscienza delle difficoltà che ne sarebbero derivate nei rapporti con ampi settori di elettorato. Non è un caso isolato legato alla specificità della nostra terra.

Dalla Svolta di Salerno in poi con la quale il PCI propone un compromesso che rinvii la decisione sulla Monarchia a dopo la fine della Guerra, ma garantisca lo sviluppo della Resistenza e della guerra contro il nazifascismo, fino alla controversa approvazione dell’articolo 7 della Costituzione che riconosceva il Concordato, il realismo del PCI si incontra con il concetto di interesse generale e ne determina la natura e la funzione nella storia del nostro Paese. Così fu per il Referendum sul divorzio e sulle altre battaglie sui diritti sociali e civili, dove il PCI non si limita a fare propaganda delle sue posizioni, ma diventa lo strumento politico organizzativo principale di una decisiva e vittoriosa campagna unitaria capace di parlare a tutta la società italiana e non solo alle minoranze illuminate. Così fu nel confronto con l’europeismo di Altiero Spinelli e con i nuovi movimenti femministi e pacifisti visti come un’occasione per rinnovare una cultura politica in crisi e come un tentativo, forse, velleitario e anche tardivo, di uscire la logica dei blocchi internazionali contrapposti e di costruire una “terza via”. E così fu durante le calamità naturali, o nella intransigente difesa delle istituzioni democratiche da tutti i tentativi eversivi, inclusi i tentativi di Golpe, le sfide della mafia e dei terrorismi. Enrico Berlinguer amava un ossimoro spiegando che il PCI era insieme “conservatore e rivoluzionario”. E negli articoli in cui propose dopo il Golpe in Cile il “compromesso storico” tra comunisti, socialisti e cattolici definiva l’obiettivo di quell’incontro “la seconda rivoluzione democratica e antifascista” fondata sull’attuazione dei principi della Costituzione.

Nessuna indulgenza, quindi, sui limiti storici, politici e anche programmatici che hanno impedito un’alternativa e un rinnovamento più adeguati alle crisi della società italiana. A mio parere la crisi storica del PCI era già maturata molto prima della caduta del Muro di Berlino nel periodo immediatamente successivo alle grandi vittorie elettorali del biennio 75-76 che va dal tragico ’77 al rapimento Moro passando poi per la sconfitta alla FIAT e arrivando alla morte di Berlinguer e alla sconfitta nel Referendum sulla scala mobile. E’, dunque, ancora necessario ragionare su quella storia importante, ma senza rimanere prigionieri del passato.

Il PCI non c’è più da un trentennio e merita una riflessione storica senza sconti, rimozioni, ma anche liquidazioni antistoriche e ideologiche. Nessuna nostalgia, quindi, tantomeno impossibili e insensate riedizioni postume, ma nessun rimpianto di aver militato in una comunità che, nonostante tutto, ha saputo essere protagonista della storia migliore di questo Paese.

Oggi, del resto, è necessario costruire un nuovo “partito nuovo” largo e plurale, ma capace di costruire nuove istituzioni in grado di garantire giustizia, libertà e solidarietà e di dare una risposta positiva alla grave crisi di credibilità della democrazia e alla sfida delle nuove destre populiste e sovraniste.













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