Primo Levi e i tedeschi: «Per tutta la vita ha tentato di capire»

di Giovanni Accardo e Valentina Mignolli “Primo Levi e i tedeschi” è il titolo della lezione che Martina Mengoni, ricercatrice della Scuola Normale di Pisa, terrà mercoledì 18 gennaio, alle ore 17.30...


di Giovanni Accardo e Valentina Mignolli


di Giovanni Accardo

e Valentina Mignolli

“Primo Levi e i tedeschi” è il titolo della lezione che Martina Mengoni, ricercatrice della Scuola Normale di Pisa, terrà mercoledì 18 gennaio, alle ore 17.30, nella Sala di rappresentanza del Comune di Bolzano (Vicolo Gumer, 7). La lezione è promossa dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino, si tiene tutti gli anni a Torino alla fine di ottobre e viene replicata in altre città: Milano, Roma e da quest’anno anche Bolzano. Con il passare degli anni la voce del Primo Levi testimone, scrittore, uomo di scienza, intellettuale del suo e del nostro tempo, grazie alla pacata chiarezza delle sue parole, è divenuta un riferimento indispensabile e una presenza pienamente riconosciuta a livello internazionale. Martina Mengoni nella sua lezione racconterà dei molti tentativi compiuti da Levi nel corso degli anni per comprendere quei tedeschi che si sono macchiati in prima persona dei crimini di Auschwitz, o dei tantissimi altri rimasti “sordi, muti e ciechi” di fronte all’orrore. Sarà quel racconto ad allineare accanto a date precise i fatti concreti di uno sforzo costante. A cominciare dal contratto stipulato nel 1959 con l’editore Fischer Verlag per la pubblicazione in Germania della prima edizione in tedesco di ”Se questo è un uomo”. E poi l’ uscita del libro nel 1961, destinata a suscitare in numerosi lettori l’ impulso a comunicare allo scrittore le loro sensazioni e le loro riflessioni del dopo. ”Lettere di tedeschi” è il titolo dell’ ultimo capitolo de ”I sommersi e i salvati”, che nel 1986 darà conto di un dialogo difficile e dolorosamente inconcluso. In questa intervista Martina Mengoni anticipa alcuni dei temi di cui parlerà.

Nel libro più importante di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, non si trovano espressioni di odio nei confronti dei tedeschi, né desiderio di vendetta. Questo significa che aveva perdonato i tedeschi?

«Quando Jean Améry (intellettuale ebreo austriaco, ex prigioniero di Auschwitz, con cui Levi entrò in contatto nella seconda metà degli anni ’60) definì Levi un “perdonatore”, Levi disse che non si trattava di un’ offesa, ma di un’ imprecisione. Il perdono è una categoria morale che, in quanto ebreo, non poteva appartenergli. Se Levi non provava desiderio di vendetta, era perché in lui prevaleva la curiosità, e il desiderio naturalistico di comprensione era più importante, credo, di quello morale. Molti dei fraintendimenti legati al cosiddetto concetto di “zona grigia” hanno avuto luogo perché non si è tenuto conto del fatto che la zona grigia non è un girone di peccatori, ma piuttosto di un’area d’analisi storica e sociale».

Dopo l’ esperienza di Auschwitz il dialogo tra Levi e i tedeschi è potuto ricominciare. Ha preso forma nell’ incontro con il suo traduttore, con i lettori dell’ edizione tedesca di “Se questo è un uomo”, nei confronti diretti con persone coinvolte nei fatti di allora. Cosa ci rivelano queste esperienze?

«In modo molto schematico si può dire che Levi non abbia mai abbandonato questo dialogo ma che anzi lo abbia ricercato, in modi diversi, per tutta la sua vita. Esso conferma alcune costanti della personalità e dell’indole di Levi: la sua curiosità, le sue doti di relazione, la sua disponibilità al dialogo anche quando questo comportava una dose supplementare di inquietudine e tormento, la sua capacità di abitare corpi altrui; la sua autonomia di giudizio non solo rispetto allo spirito dei tempi, ma anche alle più ristrette cerchie amicali. Soprattutto, però, il dialogo con i tedeschi è decisivo per l’ influenza che ha avuto sull’ opera di Levi nel suo complesso: sul “Sistema periodico”, su “Lilìt e altri racconti”, su “I sommersi e i salvati”. Sono i tre momenti, diversi tra loro ma in egual modo cruciali, di una nuova fase della scrittura leviana che si distacca da Se questo è un uomo per impostazione vocale e autoriale, per ricerca stilistica, per rappresentazione autobiografica».

In una lettera del 1960 al suo traduttore Levi parla di “vuoto doloroso”, “stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto”, riferendosi al suo desiderio di capire i tedeschi:”"sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi”, scrive. È riuscito a capire il suo “nemico”?

«Se per capire si intende un’ azione puntuale e definitiva, allora no, Primo Levi non ha mai capito i tedeschi. Cercare di capire i tedeschi è stata invece un’azione costante, perpetua, a cui si è dedicato per buona parte della vita, a partire dalla fine degli anni Cinquanta e fino alla sua morte. Persino intorno alla metà degli anni Ottanta, quando erano in corso le trattative per una traduzione di “Se questo è un uomo” in Germania est, Levi si dichiarò disposto a espungere alcune frasi dal suo libro, se questo avesse potuto facilitarne la pubblicazione (il Comitato Antifascista della DDR non diede infine l’ autorizzazione). Due sono stati gli interlocutori, opposti e speculari, nei confronti dei quali Levi ha manifestato un interesse e una dedizione costante: i tedeschi e gli studenti. Capire i tedeschi è stato un esercizio e un pungolo continuo, mai esaurito, e forse perfino inesauribile. Levi, d’ altronde, difficilmente formula verità definitive, piuttosto privilegia l’ analisi rispetto alla sintesi, disseziona la realtà alla ricerca di gradualità e sfumature, quasi mai formula proposizioni generali. Inoltre, è fondamentale precisare che i tedeschi per Levi non hanno mai costituito un universale astratto, ma si sono sempre incarnati in interlocutori concreti, specifici diversissimi tra di loro, con cui ha cercato un contatto e instaurato un legame».

Qual è l’insegnamento che possiamo ricavare dalla lettura delle sue opere?

«Levi non amava che si andasse in cerca di insegnamenti e messaggi nella sua opera. Ad esempio “I sommersi e i salvati”, pur essendo il suo libro più impegnato, è spesso aporetico, non è un libro a tema; se vi si cercano risposte, si rimane spesso delusi. Potrebbe essere definito piuttosto, come ha fatto Anna Bravo, una segnaletica di problemi e questioni che ci riguardano ancora oggi, a distanza di anni. Per i ragazzi poi, Levi è una voce indispensabile direi, perché possiede, insieme alla potenza argomentativa e letteraria, alcune caratteristiche a cui sono troppo poco abituati: pacatezza, understatement, autoironia».













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