Scienza e ambiente

Tra lupi, pecore e recinzioni 

Intervista a Duccio Berzi, uno dei massimi esperti italiani in materia di prevenzione del conflitto tra zootecnia e predatori «Il ritorno del lupo non va minimizzato, per molti aspetti è un terremoto. Questo non significa che non sia possibile trovare soluzioni»


Mauro Fattor


BOLZANO. Quando si parla di lupo in Alto Adige c’è un mantra che ritorna quasi come una professione di fede alla rovescia e che recita: le misure di prevenzione non funzionano. Qui da noi, poi, meno che mai. al punto che spesso questa convinzione costituisce l’assioma su cui poi si costruiscono intere politiche di contrasto alla presenza dei grandi predatori. Ma è vero che la prevenzione non funziona? E che cosa significa, quali sono gli effetti di una mancata politica di prevenzione? L’abbiamo chiesto a Duccio Berzi, uno dei tecnici più qualificati d’italia nonchè estensore del documento di indirizzo “gestione e prevenzione del conflitto lupo-zootecnia in provincia di trento”, diventato il punto di riferimento dell’amministrazione provinciale trentina, ovvero la realtà territoriale più vicina alla nostra.

Quando parliamo di prevenzione cosa intendiamo? E con quali obiettivi? L’azzeramento dell’impatto o la sua riduzione a livelli di sostenibilità?

È semplicemente disonesto raccontare che l’impatto del lupo si possa azzerare attraverso la sola prevenzione. Questa deve puntare a limitare i danni ed i disagi creati da questa specie attraverso un approccio che miri a massimizzare i risultati a fronte del minor disagio e costo possibile. La prevenzione è un compromesso per poter sopravvivere il più serenamente possibile. Poi però va accompagnata ad altre azioni.

Da anni l’Ue batte con decisione la strada della prevenzione dei danni piuttosto che quella dei programmi di risarcimento. È una scelta condivisibile? Ci sono alternative percorribili?

Per la concessione degli indennizzi la normativa europea in materia di aiuti di stato sottolinea l’assoluta necessità di aver posto in essere “misure preventive ragionevoli e proporzionate al rischio di danni nella zona interessata”. Quindi, a meno che non si usino risorse di bilancio per gli indennizzi, con tutte le limitazioni del caso, la direzione è obbligata, se non si fa prevenzione non si ha accesso agli indennizzi, come ormai succede in molte regioni italiane e non solo. Per questo è fondamentale che Regioni o Province Autonome si incamminino su questa strada, attraverso un percorso il più possibile condiviso con le parti in causa che metta a disposizione risorse e professionalità per assistere gli allevatori in questo nuovo e spiacevole percorso. Parallelamente la strada degli indennizzi deve essere spianata, attraverso uno snellimento delle procedure che permetta indennizzi congrui, rapidi e semplici. Solo così si può limitare l’impatto economico e sociale legato al ritorno dei grandi predatori.

È realistico pensare ad una gestione dei grandi predatori che escluda l’attività di prevenzione e che si limiti a misure di prelievo?

Questo potrebbe avere un senso in un contesto morfologicamente isolato, ma in una situazione come quello alpina dove i territori sono altamente vocati alla specie e i lupi ormai sono ampiamente diffusi e in continuo movimento, è chiaro che liberare una zona dai lupi e mantenerla tale nel tempo comporterebbe uno sforzo enorme, assolutamente incompatibile con le attuali politiche europee. Diverso è il discorso degli interventi “in deroga” definiti dall’art. 16 della direttiva Habitat, che la gran parte dei paesi aderenti alla convenzione utilizza già per casi particolari. L’articolo permette anche interventi di dissuasione e abbattimento selettivo a patto che questi non pregiudichino lo stato di conservazione della specie e che si siano messo in atto misure di preventive. Su questo fronte si tratta semplicemente di una scelta politica. Riuscire a sostituire il bracconaggio dilagante con interventi mirati, condivisi, basati su evidenze scientifiche, sarebbe per conto mio un passo avanti positivo.

Secondo lei, avrebbe senso l’approdo ad una formula diciamo “mista”, integrando anche forme risarcitorie legate al riconoscimento della funzionalità ecosistemica del mondo agricolo?

Assolutamente sì, anche se la maggioranza degli allevatori non vuole tanto “soldi per il lupo”, ma chiede che le istituzioni mettano la categoria nelle condizioni di poter lavorare serenamente per vedere realizzati i frutti del proprio impegno, che è poi il desiderio di chiunque svolga un lavoro che richiede passione e sacrificio.

In Alto Adige il mondo rurale si rifiuta di adottare misure di prevenzione ritenendole inefficaci e quindi, sostanzialmente, inutili. Lei ha lavorato in Trentino in situazioni morfologiche assai simili a quelle degli alpeggi altoatesini. Con quale strategia e con quali risultati?

Premesso che non conosco nel dettaglio la realtà zootecnica altoatesina e che ogni territorio o azienda va prima conosciuto, il lavoro che abbiamo svolto in Trentino con il Servizio Foreste e fauna ha incontrato anch’esso all’inizio ostilità e titubanza, come in molte altre parti d’Italia dove ho lavorato. Nel corso del 2018 abbiamo realizzato una serie di interventi “pilota” in vari contesti ambientali, che seppur all’inizio fossero invisi, hanno poi dato ottimi risultati e hanno convinto molti operatori che, almeno per certe tipologie aziendali, la strada della prevenzione non era poi così impercorribile. A distanza di anni mi riempie di soddisfazione sapere che quegli interventi sono ancora perfettamente efficaci e che il malgaro ha deciso di ampliarli o replicarli. Ma la Provincia di Trento non si è mossa solo su questo piano, abbiamo realizzato un programma articolato con azioni a 360 gradi, compresa la formazione dei forestali, la revisione delle norme, la valutazione della vulnerabilità delle aziende e del territorio per dare delle priorità d’intervento, e così via. È un tema che va affrontato con una pianificazione condivisa e non buttando sul piatto reti o cani da guardianìa da distribuire come kit di salvataggio.

Tra gli agricoltori e nell’opinione pubblica regna ancora sovrana la confusione tra recinzioni di contenimento, magari anche elettrificate, e recinzioni contro i predatori. Le prime servono per evitare che chi è dentro possa uscire, le seconde per evitare che chi è fuori possa entrare. Vuole spiegare le differenze?

Il lupo si arrampica e scava, per cui una classica recinzione di contenimento non solo è inutile ma rischia di diventare una trappola mortale per gli animali al suo interno. Una recinzione antilupo deve avere specifiche caratteristiche. Ma attenzione: non è necessario costruire bunker o fortilizi, esistono formule collaudate che limitano drasticamente l’accesso con costi ed impatti accettabili.

Possiamo dire che misure efficaci sono sempre sito-specifiche e che richiedono un approfondito lavoro preparatorio? O esiste un travaso di buone pratiche? Lei è impegnato anche in Veneto, lì le condizioni sono ancora diverse...

Sicuramente è possibile replicare molte delle esperienze in contesti nuovi, ma è indispensabile che ci sia una definizione dell’intervento “cucita” sull’azienda specifica e soprattutto che sia condivisa con il conduttore, altrimenti sono soldi pubblici buttati al vento, che diffondono la convinzione che i tecnici siano degli incapaci e le soluzioni impraticabili.

Le attività tradizionali come pascolo e alpeggio vanno difese, non c'è dubbio. Il cortocircuito sta forse nel rivendicare il diritto di poterle praticare come 150 anni fa, anche se la realtà delle Alpi di oggi non è quella di un secolo fa. Cosa comporta il ritorno dei grandi predatori dal punto di vista delle pratiche di pascolo e di conduzione della malga?

A qualcuno sembrerà eccessivo ma il ritorno dei predatori per il comparto zootecnico montano rappresenta un vero e proprio terremoto, che implica cambiamenti veloci e importanti per molte tipologie di allevamento. Comunque la si pensi, porterà ad una selezione delle aziende, un inasprimento delle tensioni sociali e abbandono del territorio, con tutti i fenomeni connessi. Questo non significa che non sia possibile trovare soluzioni, le esperienze positive ci sono, vanno analizzate e replicate, ma non è certo un fenomeno da minimizzare, soprattutto in un momento storico in cui le tendenze demografiche evidenziano un progressivo spopolamento delle aree “interne” innescato da altri fattori. Troppo spesso poi si interviene di fronte ad una situazione ormai emergenziale, quando ormai il problema si è cronicizzato. Anticipare i tempi, sia per le aziende che per le amministrazioni, dovrebbe invece essere la strada maestra.

Secondo Lei Il ritorno del lupo può essere anche un’opportunità per modernizzare e ottimizzare il sistema agropastorale?

In parte sì, penso ad esempio alla pratica del pascolo frazionato, in parte rischia invece di innescare fenomeni per i quali gli animali non vanno più al pascolo per i rischi connessi. Ad esempio in molte zone appenniniche si osserva da anni la sostituzione della classica pecora di razza Sarda, frugale ed adatta al pascolo, con razze francesi allevate in grandi stalle caratterizzate da elevata produzione ma senza le proprietà nutraceniche del latte munto da animali condotti al pascolo. Stesso fenomeno si osserva sulle Alpi orientali su razze locali, come la Alpagotta, la Brogna, la Lamon, legate a determinate forme di gestione che rischiano ora di scomparire.

Lei ha pubblicato da poco i risultati del lavoro di prevenzione fatto in Emilia Romagna con un progetto pilota e con una base molto ampia di allevatori. Vuole spiegarcelo e dirci come è andata? Da una parte i risultati sembrano parlare da soli, dall'altra sono emerse anche delle criticità...

La Regione Emilia Romagna dal 2014 si è attivata sul tema della prevenzione lavorando su più fronti, da una parte la diffusione delle opere (finanziate attraverso fondi di bilancio e fondi europei, ndr), dall’altra attraverso un sistema di assistenza alle 298 aziende agricole coinvolte sia nella fase di assistenza tecnica che in caso di attacco da parte del predatore. Negli ultimi anni è stato anche istituito un “numero verde” per la richiesta di assistenza o per segnalazioni di vario tipo. Si tratta quindi di un modello di lavoro replicabile, senza costi eccessivi e che assicura un supporto concreto molto apprezzato. Nel tempo i dati dell’efficacia delle opere e del grado di soddisfazione da parte degli allevatori vengono valutati e i risultati indicano una diminuzione degli attacchi all’interno degli spazi protetti superiore al 90%, per la precisione del 93,4% portando le predazioni da 528 a 35 in un periodo di 4-6 anni, a dimostrazione della bontà delle soluzioni impiegate. Ad onor del vero però i dati non danno la misura dell’aggravio in termini di impegno da parte dei conduttori, che spesso hanno dovuto cambiato radicalmente gestione dell’allevamento per adattarlo al nuovo scenario faunistico. Anche a “danno zero” la presenza del lupo è un costo, anche psicologico, importante. Dallo stesso studio emerge anche che percentuali rilevanti di aziende beneficiarie di finanziamento rinunciano alla realizzazione delle opere semplicemente per pastoie burocratiche e amministrative a volte surreali.

Passiamo dall’altra parte della barricata e guardiamo la situazione con gli occhio di un predatore. Cosa significa per un branco di lupi muoversi in un territorio in cui gli animali domestici non sono custoditi? Oltre al fatto predatorio in senso stretto, al singolo episodio, che ripercussioni ci sono dal punto di vista delle dinamiche comportamentali e di espansione della specie?

Il lupo è una specie “culturale”, cioè che impara un determinato stile di vita funzionale a massimizzare le risorse trofiche disponibili col minor sforzo possibile e lo insegna alle progenie. Avere ampia disponibilità di prede domestiche incustodite può portare il lupo a scegliere queste piuttosto che gli ungulati selvatici e allevare cuccioli che a loro volta porteranno avanti questo stile di vita e lo insegneranno ai loro cuccioli. È fondamentale che il lupo mantenga paura e diffidenza dell’uomo e di tutto quello che lo circonda, che sappia che se si avvicina ad una stalla non troverà niente da mangiare e che vicino ad un gregge ci sia un cane più grande di lui potenzialmente in grado di attaccarlo. La mancanza di paura e l’abituazione del lupo agli ambienti antropizzati favorisce inoltre spiacevolissimi incontri anche con cani e gatti, che rischiano di diventare a loro volta facili prede.

Messa così, la prolungata inerzia sul piano della prevenzione, indipendentemente da ogni altra valutazione, si traduce in un autentico boomerang…

Senza dubbio tornare indietro da situazioni cronicizzate implica uno sforzo decisamente maggiore.

Riesce ad immaginarsi una situazione “matura” della coesistenza tra uomini e lupi, e orsi, sulle Alpi? Con quale scenario?

Le Alpi sono una catena di montagne in cui natura e uomo si sono incontrati millenni fa, dando luogo ad uno scenario di rara bellezza. Nel corso del tempo gli equilibri sono sempre cambiati, ora a favore della Natura ora a favore dell’uomo, in alcuni casi con gradualità, in altri più bruscamente. I grandi carnivori non sono che la manifestazione di una transizione verso la naturalità, avviata ormai da decenni e favorita da scelte politiche più o meno condivisibili. I grandi carnivori a loro volta innescheranno altre reazioni, che non possiamo sapere ancora quali conseguenze avranno. Di sicuro quello che stiamo vedendo da anni è da una parte una mutata sensibilità e attenzione verso i temi della biodiversità e della tutela degli ecosistemi, dall’altra un inasprimento delle tensioni sociali, con una netta divisone tra chi le Alpi le vive e chi le frequenta. Tutto questo non potrà che risolversi attraverso la reciproca accettazione di un compromesso, perché i fin dei conti la montagna ha bisogno del turismo e degli “urbani”, quanto questi hanno bisogno di chi sulle Alpi ci vive e ha creato quei paesaggi e prodotti identitari che tutti noi apprezziamo.













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