Il basket che si è fatto grande con le fede cieca nel duro lavoro

Trento. «I Balcani. Il nostro segreto sono i Balcani. Una terra di guerre, non di conquista ma di difesa. La storia di popoli che hanno combattuto con poche armi, ma con la forza di chi gli sta...



Trento. «I Balcani. Il nostro segreto sono i Balcani. Una terra di guerre, non di conquista ma di difesa. La storia di popoli che hanno combattuto con poche armi, ma con la forza di chi gli sta accanto, dei fratelli e degli amici. La capacità di imbrogliare il nemico». Ha spiegato così il segreto del saper essere squadra, di saper essere individualisti all’interno di un gruppo saldo, Sasha “Sale” Djordjevic, ora allenatore di Bologna, ma una delle tante stelle che hanno illuminato e illuminano il firmamento cestistico della terra che un tempo si chiamava Jugoglavia. «Il nostro basket è stato questo. Un gruppo che lotta assieme e che sapeva imbrogliare chi gli stava di fronte con passaggi inaspettati, sotto alle gambe e quanto altro». Ma i segreti di un basket che è scuola, fascino, tecnica, forza fisica, mentalità unica, sono anche altri. E li hanno spiegati assieme a Sasha, il grande Predrag “Sasha” Danilovic, Mihovil Nakic, Boscia Tanjevic e “la voce” Sergio Tavcar. Già il telecronista di Capodistria, l’emittente che portò in Italia il basket dell’allora Jugoslavia, ma che portò, ai più fortunati, anche la pallacanestro italiana in quel paese. Due miti cestistici che si incrociavano. Che in qualche modo a livello di club si sono succeduti con Varese spodestata proprio dai ragazzini della Cedevita con un “bimbo” chiamato Drazen Petrovic.

Lo spartiacque

«Il nostro Basket è finito il 7 giugno del 1993», il giorno che Drazen è morto in un incidente stradale, è stato detto. Perché Drazen era stato un fuoriclasse assoluto (il più grande per Djordjevic; tra i più bravi per Nakic), un esempio di passione, dedizione, lavoro, di amore sconfinato per il basket. Uno spartiacque che ha cambiato anche la storia dei giocatori. Fu il primo a lasciare la Jugoslavia prima dei canonici 28 anni e ad aprire quindi le porte per tutti. Il summa stesso, Petrovic, del pensiero sportivo slavo. Che è «quantità, intensità e qualità del lavoro», ha detto Tanjevic. «E tempo anche per poter crescere e scelte oculate», ha aggiunto. Tempo che arrivava proprio dalle regole: fino a 28 anni tutti qua, come s’è detto. E l’Italia come approdo quasi logico. «In Coppa Campioni avevamo giocato contro (e battuto) la Virtus Bologna e l’Olimpia Milano», hanno ricordato i due Sasha. «Io ho voluto assolutamente Milano», ha detto Djordjevic. «Io ha voluto Bologna perché per il mio gioco avevo bisogno di una play e là giocava Brunamonti. E io volevo proprio lui».

Il futuro prossimo

“Basketland”, sta regalando al mondo altre stelle. Lo sloveno Doncic e serbi Jokic e Bogdanovic tutti in NBA. Giocatori, loro e quelli che verranno, ai quali le stelle di ieri cercano di trasmettere «il carattere, la passione, la voglia di lavorare, che i nostri allenatori, Boscia è tra questi, ci hanno insegnato». E gli “dei del basket” ringraziano. SIL













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Valeria Frangipane

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