In Russia si gioca e stadi aperti per metà della capienza

MOSCA (Russia). La Federazione russa ha chiuso i suoi confini ormai dai sette mesi. La popolazione russa la prende con filosofia, se si deve stare a casa, «si sta a casa», se si può andare a lavoro,...


MARCO MARANGONI


MOSCA (Russia). La Federazione russa ha chiuso i suoi confini ormai dai sette mesi. La popolazione russa la prende con filosofia, se si deve stare a casa, «si sta a casa», se si può andare a lavoro, «si va a lavoro» e, se si deve andare a tifare per la propria squadra del cuore, «si va allo stadio».

«Net problem !» per un popolo che fino a 30 anni di sacrifici ne ha fatti decisamente tanti.

Il Covid-19 nella “Madre Russia” fa segnare numeri preoccupanti: l’1% della popolazione (oltre 147milioni) è rimasta infettata. Nella giornata di ieri ci sono stati 17.340 nuovi casi, 5.478 nella sola Mosca, la capitale multiculturale che ai tempi dell’Unione Sovietica univa il popolo estone con quello turkmeno.

Oggi come allora, Mosca e tutta la Russia racchiudono il loro fascino e la grande passione per lo sport. Passione e cultura sportiva da San Pietroburgo alla Kamchatka vanno a braccetto. La capitale russa è il solito brulicare di persone che in ortodosso silenzio si spostano tutte munute di mascherina, accessorio che in questo periodo può essere visto positivamente perché riparare le vie aeree da quel gelido venticello che soffia costante dagli Urali. Lo sport nazionale è l’hockey, quello che ha incollato intere generazioni davanti al piccolo schermo spesso in bianco e nero per gioire per gli epici trionfi. L’hockey, lo sport del “tutto esaurito” nei moderni e confortevoli palazzi del ghiaccio.

Sospesa la precedente edizione della Kontinental Hockey League e con quella in corso che registra già qualche cancellazione (Jokerit Helsinki, Dynamo Riga), il pubblico ha una perenne “fame” di hockey.

Alla Cska Arena al “Parco delle Leggende” a due passi dallo storico museo dell’hockey in quell’area dove venivano fabbricate le Zil, le autovetture della Nomenklatura, sembra che il coronavirus non esista. All’interno di un impianto da 12.100 spettatori, in questa stagione si sono visti anche oltre 6.000 fans. Solo pochi giorni fa in occasione di uno dei tanti derby, quello tra Spartak e Cska, sugli spalti c’erano 4.097 spettatori. A dare quel tocco di unicità è il nutrito gruppo delle cheerleader, le “ragazze pon pon” che ballano sugli spalti e attirano gli occhi dei presenti durante le pause (e anche non) di gioco. Rispetto al passato una sola differenza: la mascherina griffata della società che copre parzialmente il loro sorriso.

Sulle poltrone del primo anello tifose e tifosi tutti con la mascherina, chi quella di stoffa con il logo della propria squadra, chi con quella più semplice chirurgica. La distanza è un po’ il comune denominatore di tutti i presenti. Non è così in curva dove c’è la tifoseria più calda. Niente mascherina (o semplicemente abbassata) e tutti appassionatamente vicini come se il coronavirus fosse già sui libri di storia nelle pagine seguenti a quelle che raccontano della dissoluzione dell’Urss.

Due sere fa all’Ice Palace di San Pietroburgo ad assistere ad un’altra partitissima, quella tra il locale Ska e lo Spartak Mosca, c’erano ben 6.567 spettatori. Numeri leggermente inferiori rispetto a quelli di San Pietroburgo si registrano nella lontana Siberia. Alla Ufa-Arena per seguire il team locale del Salavat Yulaev gli spalti vengono occupati anche da 4.000 tifosi. Numeri leggermente inferiori alla Sibir Arena di Novosibirsk.

Non sono ammessi, invece, spettatori alla Barys Arena di Nur-Sultan in Kazakistan. Le squadre della KHL che devono recarsi nella capitale kazaka lo possono fare solo in virtù di un accordo governativo.















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