1914: la Grande guerra che fece nascere la questione altoatesina

Quando l'Austria avviò il primo conflitto mondiale In meno di cinque anni quasi 9 milioni di morti



Prima la discussione - furibonda, quasi isterica - sul destino dei monumenti fascisti. Poi lo scontro se possibile ancora più duro sulla festa per l'unità d'Italia e la mancata partecipazione della Provincia a titolo ufficiale. Insomma la Storia è tornata alla ribalta del dibattito pubblico altoatesino: tanto che anche il presidente Durnwalder, per giustificare l'assenza alla cerimonia di Roma, ha detto che «a noi sudtirolesi nessuno ha chiesto nel 1919 di essere annessi all'Italia». Tutti parlano di Storia: e quindi abbiamo chiesto a uno storico, Andrea Di Michele, di raccontare com'è scoppiata la Prima guerra mondiale e quali ripercussioni ha avuto per le vicende altoatesine. (m.r.) di Andrea Di Michele Grande Guerra», «inutile strage», «immane carneficina», sono tanti i modi in cui è stata definita la prima guerra mondiale, sia da parte di chi l'ha vissuta che di chi l'ha studiata. Ogni definizione ne ha sottolineato il gigantesco portato di morte e distruzione, incapace di distinguere tra soldati e civili, tutti egualmente vittime di uno scontro militare che si faceva tecnologico e industriale, la cui enormità non aveva precedenti nella storia dell'umanità. Soltanto la seconda guerra mondiale, una manciata di anni dopo, sarebbe stata capace di superare tale orrore.  Le cifre sono effettivamente impressionanti: 8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati, un'intera generazione, quella dei nati negli ultimi vent'anni dell'800, decimata. Un'esperienza sconvolgente per chi l'aveva vissuta nelle trincee, ma anche per chi aveva conosciuto le dure ricadute sul "fronte interno". Dal conflitto sarebbe uscita un'Europa diversa, con una società profondamente trasformata, ma anche con confini ridisegnati e rapporti di forza nuovi. In fondo è da là che nasce anche la questione sudtirolese, visto che l'amputazione del Tirolo fu una delle conseguenze del crollo dell'Austria-Ungheria.  Eppure tutto ebbe origine, apparentemente, da un singolo evento, da un episodio drammatico ma limitato, l'uccisione a Sarajevo il 28 giugno 1914 per mano di uno studente bosniaco irredentista, dell'erede al trono d'Austria, l'arciduca Francesco Ferdinando e della moglie. L'attentato fu interpretato dall'Austria come una provocazione della Serbia, sul cui territorio aveva la propria base l'organizzazione irredentista colpevole del gesto omicida. Tanto bastò all'Austria per decidere di debellare definitivamente il nazionalismo serbo, visto come un rischio per l'integrità dell'impero. La via scelta fu quella di una guerra preventiva contro Belgrado, nella certezza che lo scontro avrebbe mantenuto un carattere locale. Lo stesso pensava la Germania, alleata di Vienna, sicura che la Russia non si sarebbe attivata a difesa di Belgrado. Ma l'irricevibile ultimatum presentato alla Serbia provocò l'immediato sostegno della Russia al suo principale alleato nei Balcani; la successiva dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia condusse alla mobilitazione delle forze armate russe sull'intero confine occidentale, quindi anche alla frontiera con la Germania, che reagì dichiarando guerra a Mosca. Lo stesso giorno la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le proprie armate. Era l'inizio di una guerra che sarebbe durata quattro anni e mezzo e che, pur mantenendo il proprio centro in Europa, a causa soprattutto della sua estensione agli imperi coloniali avrebbe coinvolto per la prima volta nella storia tutti e cinque i continenti.  A far precipitare gli eventi fu dunque un quadro internazionale che vedeva le grandi potenze divise in blocchi contrapposti e percorse da forti spinte belliciste. Centrale fu la responsabilità dei due imperi centrali, che tentarono un'impresa militare che volevano limitata, sottovalutandone i rischi globali.  L'Italia inizialmente rimase fuori dal conflitto. Il carattere difensivo della Triplice alleanza che la univa ad Austria-Ungheria e Germania non la costringeva a scendere in campo al loro fianco. Sulla neutralità convergevano le aspirazioni delle masse popolari con le posizioni delle principali forze politiche. Le cose mutarono con il passare dei mesi, quando all'interno di alcuni settori politici e di parte dell'opinione pubblica andò maturando l'idea che una discesa in campo avrebbe garantito sicuri vantaggi al Paese e alle sue classi dirigenti. Guerra e militarizzazione del fronte interno avrebbero consentito di porre un freno al socialismo dilagante, oltre a permettere di completare il processo risorgimentale con la riunione alla patria di Trento e Trieste e di conquistare una posizione predominante sullo scacchiere adriatico. Ma per raggiungere tali obiettivi era contro l'alleata Austria che bisognava rivolgersi, ribaltando le alleanze e andando incontro ai diffusi sentimenti antiaustriaci dell'opinione pubblica.  A partire dall'autunno del 1914, il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino giocarono su due tavoli. Da una parte trattarono con gli imperi centrali per ottenere compensi territoriali in cambio della neutralità, dall'altra allacciarono contatti segretissimi con l'Intesa. A risultare ai loro occhi più vantaggiosa fu l'offerta di Francia, Inghilterra e Russia, che si concretizzò nel cosiddetto Patto di Londra, firmato il 26 aprile 1915 da Salandra e Sonnino senza informare né il Parlamento né gli altri membri di governo. In cambio dell'intervento, l'Italia avrebbe ottenuto a guerra finita e vinta una serie consistente di acquisizioni territoriali: il Trentino e il Sudtirolo fino al confine «naturale» del Brennero, Trieste e la Venezia Giulia, l'Istria, parte della Dalmazia e numerose isole adriatiche.  Fu dunque a Londra, già nell'aprile 1915, che si decise il destino di quello che sarebbe diventato l'Alto Adige. A guerra finita, al tavolo della pace l'Italia non ottenne tutto ciò che si attendeva. L'Austria-Ungheria non esisteva più e al confine orientale era nato il nuovo Stato jugoslavo. Oltre a ciò, il presidente americano Woodrow Wilson, che non aveva firmato il patto di Londra e quindi ad esso non era vincolato, chiedeva che i nuovi confini fossero disegnati il più possibile sulla base dei confini di nazionalità. Ciò portò alla mancata acquisizione di Fiume e della Dalmazia. Ma il «sacrificio» ad est rese intoccabili le promesse a nord: l'Italia non poteva rinunciare anche ai territori che le erano stati promessi a sud del Brennero.  Nel gennaio 1920, ad annessione avvenuta, il Commissario generale civile per la Venezia Tridentina, Luigi Credaro, commentando le proteste dei rappresentanti politici sudtirolesi contro sue iniziative volte a rafforzare l'italianità nella Bassa Atesina, si lasciò andare a commenti irritati e richiamò presunti «diritti della vittoria». Aggiunse che i sudtirolesi ancora non avevano capito «che essi hanno voluto la guerra e, soprattutto, che l'hanno perduta». C'era della brutalità in queste parole che scaricavano sulla minoranza sudtirolese passata controvoglia all'Italia le responsabilità della classe dirigente dell'impero nello scoppio del conflitto. Ma era un'affermazione che aveva un fondo di verità. L'Austria-Ungheria non era sopravvissuta alla guerra che aveva scatenato e le due componenti che avevano avuto una posizione dominante nella duplice monarchia, la tedesca e l'ungherese, furono trattate alla stregua di popoli vinti. Fu anche per questo che il principio di nazionalità propugnato da Wilson non fu preso in considerazione nel determinare il nuovo confine tra Italia e Austria, segnando così il destino dei sudtirolesi.

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