Al Trevi di Bolzano il Mese della fotografia ospita Marrozzini

Venti storie di venti vite in quaranta fotografie: è la mostra curata dal Circolo Modotti


Daniela Mimmi


BOLZANO. Venti storie di venti vite in quaranta fotografie: questa è per sommi capi la mostra fotografica che il Circolo Modotti cura al Centro Trevi, fino al 3 dicembre. Il Mese della Fotografia è questa volta dedicato interamente al fotografo marchigiano Giovanni Marrozzini e alla sua mostra Echi. "Abbiamo già esposto una sua mostra, è piaciuta molto sia a noi che al pubblico che è venuto a vederla, quindi abbiamo pensato di proporre questa sua Echi - ci dice Silvia Scrascia, coordinatrice del circolo fotografico che organizza la mostra -. Le sue foto sono molto poetiche, raccontano storie di immigrati. Marrozzini è riuscito a concentrare una intera vita, pienamente vissuta, in due scatti, tutti rigorosamente in bianco e nero, utilizzando ancora la pellicola fotografica". "La pellicola ha una morbidezza che il sistema analogico non possiede - ci conferma il fotografo -. Inoltre mi piace stamparle: è come vedere le foto nascere due volte". Giovanni Marrozzini, nativo di Fermo nelle Marche, dove per altro ancora vive, ha sempre lavorato come fotografo free lance ("Ma non come foto reporter", tiene a puntualizzare), e ha realizzato reportage da tutto il mondo: in Africa, dove si è occupato di problemi come l'emigrazione, l'Aids e la malaria, in Argentina, in Albania, in Giappone, in Palestina, spesso per associazioni onlus. "La mostra, che è anche raccolta in un libro fotografico con lo stesso titolo, nasce dalla mia collaborazione con il Comune di Fermo: volevano rintracciare e descrivere gli emigrati marchigiani in Argentina. Ho fatto ricerche qui in Italia per circa sette mesi, poi sono partito per l'Argentina, dove ho percorso 30 mila chilometri in quattro mesi. Ho voluto raccontare, con la mia macchina fotografica, queste vite, o meglio ho tentato di raccontare il presente anche attraverso il passato di questa gente".
Quali sono le storie che l'hanno colpita di più? "Ce ne sono tante, tutte a loro modo esemplari. Ad esempio c'è la storia di Giuseppe. Lui faceva il falegname, poi durante la seconda guerra mondiale è stato catturato dai nazisti e per loro ha fatto prima mobili poi bare. Mi è sembrato quasi naturale mettergli in mano un pezzo di legno e dirgli di costruire Pinocchio. E con quello l'ho fotografato. Poi ho pensato di metterci vicino la foto di una balena. Io non volevo la classica pinna fuori dall'acqua, volevo la balena sott'acqua. Ho scattato la foto e quando sono andato a sviluppare la pellicola è venuta fuori una strana forma, come il muso di una volpe".
Come crea la combinazione delle due foto? "A volte per associazione di idee. Ad alcune storie sono molto legato. Come quella di Leone, morto a 106, pochi anni dopo la moglie. Erano molto innamorati e l'ho fotografato da solo sotto la pergola dove lui andava sempre con la moglie. Mi ha detto "Racconta la mia storia a tuo figlio". Ma io non avevo figli. Pochi mesi dopo lui è morto e mia moglie era incinta. Mi è sembrato naturale chiamare mio figlio Leone...".

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