Arte e violenza: Margolles a Bolzano

Nella mostra «Frontera» racconta gli omicidi di Ciudad Juárez in Messico


Marco Rizza


BOLZANO. Uno dei casi letterari dell'ultimo decennio è stata la pubblicazione di «2666», il grande romanzo di Roberto Bolaño. Una delle cinque parti della sterminata opera è intitolata «La parte dei delitti» e racconta la sconvolgente violenza che da anni domina a Ciudad Juárez (che Bolaño nel romanzo chiama Santa Teresa), una grande città al confine tra Messico e Stati Uniti, forse la più violenta al mondo: da 3000 a 4000 omicidi l'anno, la maggior parte a causa della guerra tra bande di narcotraffico.

Centinaia di donne violentate e uccise, forze dell'ordine assediate (quando non complici), e in più il dramma dell'emigrazione verso il Texas. L'ombra della violenza di Ciudad Juárez arriva ora in tutta la sua dirompenza anche a Bolzano con la mostra «Frontera» della messicana Teresa Margolles. L'esposizione si trova al quarto piano - intensificando così il suo messaggio nel contrasto con l'ambiente asettico, le pareti bianche, le grandi vetrate che danno sulle Dolomiti.

La Margolles non si ferma davanti a niente, e se questo da un lato spinge l'arte in territori pericolosamente vicini alla cronaca e al nudo realismo, dall'altro produce opere di fortissimo impatto.  Le installazioni centrali dell'allestimento sono due muri, provenienti dal Messico e ricostruiti al museo.

Contro uno di questi muri (faceva parte di una scuola) sono stati uccisi quattro giovani dai 15 ai 25 anni. Contro l'altro sono stati trucidati a colpi di mitragliatrice due poliziotti. Sulle pareti sono ancora visibili i buchi dei proiettili, ma anche i graffiti e il filo spinato originali, e anche i segni lasciati dalle indagini della polizia. Pezzi di paesaggio urbano che diventano testimonianze di violenza, ma che trasportati in un museo diventano anche sculture.

E lo spettatore, a sua volta, diventa testimone degli omicidi. Una terza installazione è «Plancha»: una lunga piastra di acciaio incandescente sul quale cadono dall'alto, lentamente, gocce d'acqua che al contatto con l'acciaio evaporano con un sibilo, lasciando un'alone indelebile. Ma quella è l'acqua con cui sono lavati i cadaveri all'obitorio («non ci sono pericoli per la salute degli spettatori», si affretta a spiegare la direttrice del Museion Letizia Ragaglia...).

E l'effetto, ha spiegato ieri la Margolles, «è anche quello che provano i genitori quando dicono loro che un figlio è stato ucciso: un sibilo nel cuore, che può anche evaporare col tempo ma che lascia sempre un'alone». Altre installazioni - come una lunga incisione lungo una parete del museo che viene riempita di grasso di cadaveri - e video raccontano la violenza di Ciudad Juárez, trasfigurandola artisticamente e lanciando anche - in qualche caso - messaggi di speranza.  Sempre oggi alle 19 viene inaugurata anche una seconda mostra a Museion (piano terra): «Image to be projected until it vanishes». È una colettiva curata da Minhea Mircan, uno dei curatori emergenti del panorama europeo. Entrambe le esposizioni restano aperte fino al 28 agosto.

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