Avventura Overland, il giro del mondo su camion

Il nuovo libro di Paolo Cagnan racconta un’esperienza alla portata di (quasi) tutti. E i “truck” arancioni della fortunata serie tv non c’entrano nulla. Alla scoperta di un segmento semisconosciuto del turismo adrenalinico



C’è un camion che arranca, laggiù. Anzi: più che arrancare, non si muove proprio. È sprofondato in un mare di fango su cui ondeggia pericolosamente, quasi stesse precipitando nelle sabbie mobili. In realtà, si muove perché una trentina di maschi – sudati e seminudi – lo stanno scrollando da un lato all’altro, come se ciò potesse bastare per tirarlo fuori. Ci sono i neri abitanti di un villaggio lì vicino, nelle foreste tropicali del Congo; con loro, una decina almeno di occidentali male in arnese, scamiciati e poco convinti, che cercano di fare buon viso a cattivo gioco. Istantanea di un avventuroso viaggio nell’Africa Centrale. È uno dei primi Overland commerciali, metà anni Settanta. E quelli che sbraitano e bestemmiano, là sotto nel mare di fango, sono viaggiatori paganti. Turisti, sì. Speciali, ma pur sempre turisti. Purché non andiate a riferirglielo: si offenderebbero a morte, loro. Pionieri di un’idea di viaggio tra le più affascinanti e moderne che ci siano. Overlanding.

Altra istantanea. Un segnavia di pietra indica, in caratteri latini e arabi, le distanze in chilometri da alcune città dell’Asia Centrale: 2275 km da Teheran, 3920 da Ankara, appena 13 da Qetta. Primi anni Ottanta, in Pakistan.

Overlanding. Adesso siamo in pieno Sahara, la data non è segnata da nessuna parte. Ma a giudicare dall’improbabile vestitino a fiori sunflower di una ragazza che fa le foto al camion insabbiato, si direbbero ancora gli anni Settanta. I boys sono impegnati con le sandmats, le griglie antiscivolamento da infilare sotto le ruote del camion per cercare di spingerlo oltre la buca nella quale si è infilato, quasi di traverso.

Overlanding. “To travel long distances across land”, spiega il dizionario. Percorrere lunghe distanze via terra: così lo tradurremmo noi. “Viaggiare in modo indipendente senza le scocciature normalmente correlate; muovendosi in piccoli gruppi, incontrando le popolazioni locali e fermandosi ovunque”: questa la definizione di Geoff Manchester e Darrell Wade, i due proprietari australiani della Intrepid Travel, una delle più affermate compagnie di Overland al mondo.

Hanno iniziato col Borneo malese, l’Indonesia, il Vietnam, mentre gli altri battevano soprattutto piste africane e sudamericane. Il primo vero viaggio, una Transahariana tra amici. Per poi scoprire – o meglio, intuire – che con quei camion superattrezzati potevano anche provare a organizzare improbabili tour per turisti scapestrati e avventurosi come loro. “Tutto ciò che serviva, dopotutto, era un vecchio camion, una mappa, un elevato senso di fiducia in se stessi, più un bel po’ di tempo e di fortuna. Così ebbe inizio il fenomeno dei tour operator di Overland”: Charlie Hopkinson, pioniere del settore e ora direttore del marketing di Dragoman, tra le più grosse compagnie Overland, sintetizza così come tutto ebbe inizio.

È tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta che i primi avventurieri di “settore” decidono di affrontare il mondo con un mezzo nuovo. Via la motocicletta sullo stile del Che in “Latinoamericana”, in garage le mitiche Cinquecento, le Diane o i Maggiolini da figli dei fiori, scartato anche il treno e aborrito il troppo tradizionale camper, ecco saltare fuori un vecchio camion militare.

Potente, affidabile, versatile. Anche se pesante, molto pesante. E poco maneggevole. Partono dall’Inghilterra, all’avventura. Il camion è la loro casa. Come un camper, ma adatto a ogni terreno. Difficile che basti una strada dissestata a fermarlo. Una voragine, un tappeto di melma, una salita ripidissima. Non sfigurerebbero neppure a una Parigi-Dakar, questi mezzi. Che di viaggio in viaggio subiscono una mutazione quasi genetica, fatta di continue migliorie, tanto che chiamarli camion risulta quasi riduttivo.

La madre di tutte le rotte è Londra-Katmandu, passando per il Medio O oriente. Ma era è troppo facile, per quel manipolo di esploratori pronti a ogni sfida. Così nascono le prime spedizioni transafricane: sempre da Londra a Katmandu, ma attraversando per lungo e per largo il Continente nero, dalla capitale inglese a Tangeri e poi giù giù nelle viscere del Sahara sino a Città del Capo in Sudafrica, e da lì risalendo l’Africa ooccidentale verso l’Egitto e il canale di Suez. Adesso sì, che si inizia a fare sul serio. Trovare i primi passeggeri non è facile: ci vogliono soldi, e tempo. Piccoli numeri, all’inizio.

“Negli anni Settanta e Ottanta – racconta ancora Hopkinson – queste rotte diventeranno via via più popolari, conservando intatto il loro senso pionieristico. In molti di questi luoghi, la vita di strada non è cambiata per nulla tra gli anni Sessanta e primi anni Novanta. Trent’anni di fango, sabbia e buche”.

I campeggi, allora, erano quasi inesistenti. I camion si fermavano dove capitava. L’itinerario era un’idea di massima, più che un programma. Gli incontri con gli abitanti del posto, l’essenza del viaggio. Niente cellulari, né satellitari. Solo lo spirito d’avventura.

È nei primi anni Ottanta che nascono le compagnie di Overland così come le conosciamo noi oggi, a distanza di sei lustri. Una spedizione all’anno, per le strutture più piccole. Poi due, o tre. Sono quasi tutte società inglesi.

Ma poiché la meta più ambita resta l’Africa, alcune compagnie sorgono anche laggiù, con base a Città del Capo o ad Arusha, in Tanzania: prima come filiali londinesi, poi come società a sé stanti. Le risorse per la pubblicità non sono elevate: funziona molto bene il passaparola. E poi ci sono le brochures, e qualche agenzia tradizionale disposta a rischiare di promuovere questi viaggi da brivido.

Le parole d’ordine sono due: youngsters and cheap.

Il brano qui sopra è tratto da “Avventura Overland - Il giro del mondo su camion alla portata di (quasi) tutti”, scritto da Paolo Cagnan e pubblicato da Gremese

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