Bolzano, parla il papà di Mattia Fiori in coma da 4 anni: «Era meglio lasciarlo morire»

Quattro anni fa uno shock anafilattico provocato da un antibiotico gli fece perdere conoscenza: "Allora ringraziai i medici che lo salvarono, oggi mi chiedo perché l'abbiano fatto" dice Renato Fiori, padre del ragazzo quasi 28enne, che condivide la battaglia di Beppino Englaro: "Forse un giorno avremo il coraggio di fare come lui"


Antonella Mattioli


BOLZANO. «Quattro anni fa avevo ringraziato la dottoressa che mi aveva detto: "suo figlio l'abbiamo salvato in extremis: è gravissimo ma vivo". Oggi mi chiedo perché l'abbiano rianimato, ben sapendo che se al cervello non arriva ossigeno per 7-8 minuti, la persona diventa un vegetale. Era meglio, per lui innanzitutto, e per noi, se lo lasciavano andare».

Considerazioni amare quelle di Renato Fiori che esprimono il tormento di un padre che assiste impotente alla lunghissima agonia del figlio Mattia. Le stesse che hanno portato Beppino Englaro ad intraprendere una dura battaglia legale per ottenere che alla figlia Eluana, da 17 anni in stato vegetativo dopo un incidente d'auto, venisse sospesa l'alimentazione artificiale. Una battaglia la sua, lunga e tormentata, che ha riacceso il dibattito sul testamento biologico. Ieri il via libera in commissione giustizia della Camera al disegno di legge.

Mattia ha smesso di vivere, nel senso vero del termine, il 1º marzo di quattro anni fa. Il medico gli aveva diagnosticato una cistite e prescritto degli antibiotici: pochi giorni e sarebbe tornato a lavorare in un negozio del centro. Ma le cose andarono diversamente.

Il farmaco gli provocò uno shock anafilattico: era solo in casa quando si era sentito improvvisamente soffocare. Appena il tempo di chiamare il 118, poi era svenuto. Fine di tutto. Il cuore ha continuato a battere, il cervello si è spento per sempre. Aveva 24 anni. Il 19 aprile ne farà 28.

Renato, sua moglie Dilva e la figlia Francesca, per mesi hanno sperato che potesse esserci una ripresa. O almeno un piccolo segnale cui aggrapparsi. «Quando lo abbiamo portato nella clinica di neuroriabilitazione in Germania, ho creduto davvero che per Mattia ci fosse una speranza. A fare il tifo per lui allora c’erano anche tanti amici. Il sabato e la domenica si organizzavano in due-tre macchine per andare a trovarlo. È stata una dimostrazione di affetto molto importante per noi: non ci sentivamo soli. Poi però, col passare dei mesi, mi sono reso conto che mio figlio non aveva alcuna chance. Anche gli amici se ne sono andati uno dopo l’altro presi dal lavoro e dai nuovi impegni familiari. Non mi stupisco, ma dispiace».

Da quasi quattro anni Mattia vive nel centro lungodegenti di Firmian in mezzo a tanti anziani giunti a fine corsa, dove le giornate scivolano via tutte uguali. Accanto a lui sono rimasti solo il padre, la madre e la sorella Francesca che fa i salti mortali per conciliare famiglia e lavoro a Modena con il desiderio di stare vicina al fratello.

«Al mattino - racconta il padre - vado io: gli parlo, lo accarezzo, ma so che il Mattia, che amava la vita e tifava Inter, non c’è più. Mia moglie sta con lui il pomeriggio e la sera fa fatica a staccarsi. È così tutti i giorni della settimana: da quel 1º marzo di quattro anni fa per noi non c’è più stato un giorno di vacanza. Perché se ce lo concedessimo ci sentiremmo in colpa. Un incubo che ti logora e non sai quando finirà. Per fortuna che per chi lo assiste, a Firmian, Mattia è diventato uno di famiglia. Mi chiedo però: cosa succederà il giorno in cui io e mia moglie non ci saremo più?».

A rompere la monotonia di giornate che scorrono tutte uguali ci sono i frequenti ricoveri in ospedale, perché le difese immunitarie sono sempre più basse. «Basta un colpo d’aria e si ammala. È duro ammetterlo ma i pazienti come Mattia alla lunga rappresentano solo un costo per il sistema sanitario e per i medici un peso. Mi rendo conto che psicologicamente non deve essere facile curare chi sai perfettamente che non ha alcuna speranza. Ma allora mi chiedo: perché lo hanno rianimato, perché hanno condannato un giovane a vivere chissà quanto ancora come vegetale?».

Oggi più che mai papà Fiori capisce la battaglia condotta da Beppino Englaro per evitare che sua figlia Eluana continuasse a vivere sospesa in quella specie di limbo tra la vita e la morte.
«È facile chiacchierare e sparare sentenze quando queste situazioni non si vivono sulla propria pelle. Poi ti capitano e capisci che è giusto consentire alle persone di andarsene con dignità. Mattia, ne sono certo, non avrebbe mai voluto vivere così. Perché questa non è vita è una condanna».

L’ultima delusione, qualche mese fa, con l’archiviazione del procedimento a carico di due operatori del 118: «Volevo giustizia per mio figlio; volevo che qualcuno pagasse per quello che è successo. Quando è svenuto durante la telefonata al 118, l’operatore doveva intuire la gravità della situazione, inviare un’ambulanza con il medico e anche i vigili del fuoco per aprire la porta. La prima ambulanza è arrivata dopo 7 minuti. Mio figlio era sul pavimento privo di sensi. Non poteva aprire. Si è perso tempo: la seconda ambulanza è arrivata dopo 23 minuti. Troppo tardi. Allora però mi domando, perché hanno insistito, perché lo hanno rianimato ad ogni costo. Qualcuno ha detto che con l’archiviazione per gli operatori del 118 è finito un incubo: per mio figlio e per la nostra famiglia dura da quattro anni».

E per quanto ancora? Fiori, che come sua moglie e sua figlia è attaccatissimo a Mattia, se lo chiede ogni giorno guardando quel corpo seduto su una sedia a rotelle. Immobile. Lo sguardo fisso. «Chissà, forse un giorno, avremo il coraggio di fare quello che ha fatto Englaro: ad Eluana hanno sospeso l’alimentazione artificiale e ha finito di soffrire. Un gesto di grande umanità».

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