la storia

Due anni nel campo per optanti a Innsbruck prima di tornare “italiani” 

Finita la guerra, il difficile ritorno in Alto Adige da sconfitti della famiglia Altadonna. Solo nel 1950 riottennero ufficialmente il loro vero cognome


Luca Fregona


BOLZANO. «O te ne vai dalla Germania o finisci in galera». Rodolfo Altadonna, “ribattezzato” Rudolf Springer, nel 1946 ha 40 anni, una moglie e due figli adolescenti. Optante, iscritto al Partito Nazista, quando gli alleati lo convocano ad Augsburg, ha una sola possibilità: tornare indietro. In Italia.

«Nel giro di pochi giorni - ricorda oggi il figlio Willy - ci siamo trovati su un carro bestiame diretto in Austria». Un carro zeppo di ex optanti sconfitti. «Tutte famiglie cariche di borse e borsoni. La polizia militare di scorta. Ormai avevo 15 anni, capivo tutto». Il convoglio resta fermo tre giorni e due notti a Kiefersfelden, al confine. «Nessuno sapeva niente. Nessuno ci diceva niente. Le condizioni igieniche erano spaventose». La seconda notte si avvicina una guardia. «Domani partite per la Bassa Austria, andate nella zona rossa». La zona controllata dai russi. Tra gli optanti è il panico. «Si ribellano, protestano. Spiegano che sono sudtirolesi, quindi “italiani”, anche se senza passaporto. Urlano che i russi li avrebbero fatti a pezzi. Implorano di essere spediti in Tirolo, sotto i francesi. Alla fine vengono portati a Innsbruck, al Sieglanger lager. Un ex campo di lavora che ora è un campo per optanti. Una fila di baracche fatiscenti. «Uno dei periodi più brutti della mia vita», ricorda Willy. Le condizioni di vita sono pessime. Famiglie costrette a convivere nelle camerate con i letti a castello che salgono al soffitto. Vecchi e bambini, uomini e donne. Sporcizia, pidocchi, cibo scarso e immangiabile. Di giorno escono per andare a lavorare, di notte vengono richiusi, controllati dalle guardie. «I francesi non ci potevano vedere, gli austriaci ancor meno: la nostra vita valeva zero». Non sono più cittadini germanici, ma non sono nemmeno cittadini italiani. Tecnicamente: apolidi. «Dei fantasmi».

Il papà e il fratello Rudi entrano clandestinamente in Italia. Tornano a Bolzano, dove vengono tenuti nascosti da una zia. Lavorano come lattonieri in nero. Per due volte, Willy li raggiunge. Percorre da solo i sentieri dei contrabbandieri. Tredici ore a piedi tra nevai e rocce. La seconda volta il padre lo rispedisce subito indietro. «Non puoi restare in città». Dice che è troppo pericoloso. Che la gente parla. «Se resti, ci beccano tutti e tre». Papà Rodolfo gli toglie la suola dagli scarponi. Infila un rotolo di soldi e poi la ricuce. «Portali a mamma». Willy riprende la via della montagna. Due carabinieri lo fermano a Colle Isarco. «Non capivo più l’italiano. Mi sono messo a piangere, ho spiegato che dovevo andare dalla mia famiglia in Austria». Ai carabinieri fa pena. «Erano buoni. Mi hanno dato pane e mortadella e portato alla caserma di Vipiteno, in uno stanzone pieno di ogni genere di umanità». Prostitute, contrabbandieri, disertori, ex fascisti, ex nazisti... Il giorno dopo al Brennero lo consegnano ai francesi. Che sono più duri: «Firma per la Legione straniera o ti mandiamo in prigione da clandestino. Sei scappato in Italia e non potevi». Lo riportano a Innsbruck. Al campo. «Ero disperato». Un mese dopo arriva la convocazione al processo. «Ho parlato con mia madre. Abbiamo deciso di scappare subito».

A Willy, la mamma, e la piccola Nori (che ormai ha 8 anni), si unisce una coppia di anziani optanti, i Pichler. La marcia dura venti ore. «I due vecchi facevano fatica. Ma alla fine li ho portati tutti a casa, a Bolzano». È il 1948, la famiglia si sistema in una stanza in vicolo Roggia, vicino alla Chiesa del Sacro cuore. «Per la legge non esistevamo». È Silvius Magnago nel maggio del 1950 a “mettere le cose a posto” . «Mio padre gli aveva fatto dei lavori in via Weggenstein». Quando Magnago sente la storia, li aiuta. Fa riavere agli Altadonna la cittadinanza. «Finalmente ci siamo ripresi il nostro cognome e i nostri nomi. Anche se io, per tutti, rimasi “Willy”». Il padre apre un negozio di scaldabagni e stufe. È sempre stato un uomo ruvido, ma dopo la guerra s’inasprisce ancor di più. I conflitti coi figli sono quotidiani. Willy lavora con lui ma resiste a fatica. Rudi se n’è andato da tempo. Nel 1951 si arruola nei paracadutisti. Finita la naia, lo assumono come autista alla Forst. Il 2 aprile del 1953 passa di casa, dà un bacio alla mamma, una pedata nel sedere a Willy (il suo modo di dirgli “ti voglio bene”), e scompare. È l’ultima volta che lo vedono. Si arruola nella Legione straniera. Viene ucciso il 24 aprile 1954 nell’assedio di Dien Bien Phu, in Inodocina (leggi la storia di Rudi Altadonna). Maria muore due anni dopo, a 45 anni, per il dolore. Willy con grandi sacrifici trova la sua strada. Nel 1961 diventa autista di ambulanze con la Croce Rossa, poi viene assunto al San Maurizio. Si sposa. Ha due figli. Sua moglie Marisa si è spenta poche settimane fa. Continua a vivere nella loro casa di piazza Matteotti. Insieme ai suoi ricordi e alla nostalgia per Rudi, il fratello ribelle che non ha mai dimenticato. (lf)

 













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