Egarter: «Con Ötzi ho vissuto 17 anni: è come un amico»

L'anatomopatologo e la mummia: «Maledizioni? Fantasie Invece mi son fatto l’idea che lui non abbia mai lavorato»


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Quando morirò - facendo le corna spero il più tardi possibile - diranno che sono la nona vittima della maledizione di Ötzi, la verità è che siccome nessuno è immortale prima o poi capita a tutti. Ma la mummia non c’entra nulla, come non ha avuto alcun ruolo nella morte di otto persone - due -tre di loro le ho anche conosciute molte bene - che hanno avuto per motivi diversi a che fare con Ötzi». Eduard Egarter Vigl, 68 anni, già primario di anatomia patologica dell’ospedale San Maurizio e attuale direttore scientifico della Claudiana, ride quando gli parlano della maledizione che graverebbe sulla mummia, rinvenuta il 19 settembre del 1991 sul ghiacciaio del Similaun. Da 17 anni Egarter è il responsabile della conservazione, incarico che si prepara a lasciare tra un anno, quando al suo posto arriverà Oliver Peschel, docente dell’Istituto di medicina legale alla Lmu di Monaco.

Perché questa decisione?

«Mi sono reso conto che - dopo quasi 20 anni esaltanti sia dal punto di vista scientifico che per quanto riguarda i rapporti stabiliti in giro per il mondo - mi stava cominciando a venir meno la curiosità. A quel punto ho pensato che era arrivato il momento di cambiare: giusto passare il testimone».

Lei ritiene che la mummia, conservata nei ghiacci del Similaun per 5 mila anni, abbia ancora qualcosa da dire?

«Certamente. Nel corso degli anni - grazie anche a nuove tecnologie - ci ha rivelato sempre cose nuove che, in alcuni casi, sono state poi sfruttate a livello medico».

Ad esempio?

«Le tecnologie ci hanno consentito una ricostruzione perfetta del cranio di Ötzi, questa possibilità viene oggi sfruttata in Neurochirurgia per simulare certi interventi. Altra cosa: l’endoscopia virtuale. L’abbiamo fatta con Ötzi utilizzando le informazioni che ci ha fornito una Tac sempre più precisa; in casi particolari si può usare anche su certi pazienti».

Dopo una convivenza di quasi 20 anni, cosa rappresenta per lei Ötzi?

«Un amico».

Che idea si è fatto di lui?

«Che doveva essere una figura importante nel contesto in cui viveva. Forse un leader religioso o comunque un capo. Uno che non ha mai lavorato, lo si capisce analizzando le mani. I tatuaggi, concentrati in particolare sugli arti inferiori, avevano a nostro avviso uno scopo terapeutico. È morto a 45 anni ucciso da una freccia».

Ogni quanto lo “visita”?

«Ho passato giorni interi assieme a lui, a studiare ogni particolare che potesse indicare un deterioramento. La “Zeiss” ha messo a punto un sistema che attraverso la luce riflessa della cute ci consente di capire se c’è un cambio di colorazione della pelle e quindi una variazione dello stato di “salute”. Oggi lo visito una volta alla settimana e ogni due mesi si fa un trattamento ».

Qual è il problema che lascia in eredità al suo successore?

«Lo stesso che ho avuto io: conservare al meglio la mummia consentendone l’esposizione al pubblico. Per i prossimi 100-200 anni si sta tranquilli. Però non possiamo illuderci: tutto ciò che è organico va verso il dissolvimento. Non si blocca il processo, ma si può rallentare».

A quanti gradi è conservato?

«A meno 6,5. Abbiamo stabilito che è la temperatura ideale. Il grosso problema è rappresentato dall’ossidazione provocata dall’ossigeno»..

Come si risolve?

«Con Marco Samadelli, divenuto uno dei massimi esperti di mummie, si è discusso più volte di sostituire l’ossigeno con un gas inerte, ma ciò potrebbe poi ridurre l’umidificazione nella cella. Per acquisire informazioni ho parlato anche con gli addetti alla conservazione delle mele. Alla fine abbiamo deciso di non rischiare».

Il primo incontro con la famosa mummia?

«L’incarico l’ho assunto nel ’97, ma la mummia è arrivata a Bolzano il 18 gennaio 1998. L’incontro però era avvenuto tempo prima dopo che il sovrintendente di allora Stampfer e l’assessore alla cultura Hosp mi chiesero di occuparmi della mummia che allora era custodita in una cella ad Innsbruck. Non visibile al pubblico».

Entusiasta della proposta?

«Ho preso tempo, perché non sapevo nulla di mummie. Sono andato a Innsbruck, dov’era conservata, per cercare di capire e poi accettai. A distanza di anni dico che è stata un’esperienza fantastica».

Perché, dopo la laurea in medicina, ha scelto di fare anatomia patologia?

«All’inizio non era stata una scelta, ma un’occasione che mi si era presentata dopo il corso di laurea a Padova. L’ho colta al volo perché mi consentiva di mettere assieme medicina e ricerca. Poi, nel 1984, mi sono specializzato in patologia forense in Germania ».

Non le è mancato il rapporto col paziente?

«È una mancanza che ho avvertito quando mi è capitato di incontrare qualche paziente, al quale avevo diagnosticato un tumore, che è venuto da me per saperne di più».

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