Export: le aziende altoatesine sono indietro

La Camera di commercio: rappresenta solo il 19% del Pil contro il 33% del Nordest


Antonella Mattioli


BOLZANO. «L'export è una sfida economica ma anche culturale che le aziende altoatesine devono avere il coraggio di affrontare». Dopo il re delle marmellate Oswald Zuegg, adesso è il direttore dell'Istituto ricerca economica (Ire), Oswald Lechner, a spronare gli imprenditori locali.
L'economia altoatesina ha retto bene alla crisi, ottenendo anche nel 2009 per tutti gli indicatori performance migliori: non solo del resto del Paese, ma addirittura di Germania e Austria. Anche i dati dell'export, diffusi solo poche settimane fa dalla Camera di commercio, sono buoni: nel 2010 si è registrato un aumento del 17,3%. Ciononostante quello delle esportazioni è considerato un po' il tallone d'Achille dell'economia locale che invece - sia per la collocazione geografica che per il plurilinguismo - dovrebbe avere nel commercio con l'estero il punto di forza.
«Le cifre - dice Lechner, direttore dell'Ire della Camera di commercio - fotografano in maniera chiara la situazione: in Alto Adige l'export rappresenta il 19% del Pil, contro una media nazionale che è al 23% e quella del Nordest al 33%».
Quante sono le aziende che fanno export?
«Circa 2 mila con 15 mila occupati. Bisogna calcolare però che le prime 100 aziende coprono i 2/3 delle esportazioni altoatesine».
Perché, nonostante la posizione geografica favorevole e la conoscenza delle lingue, l'Alto Adige non punta di più sull'export?
«Per una questione di dimensioni: le aziende sono generalmente piccole. E per un problema culturale: in Alto Adige si sta mediamente bene e quindi non si sente la necessità di andare a cercare nuovi mercati».
Quali aziende hanno possibilità di miglioramento?
«Le grandi aziende fanno già export. Quelle fino a cinque occupati sono troppo piccole per andare fuori dal mercato locale. Il potenziale di miglioramento è sulle ditte che hanno tra i 5 e i 50 dipendenti. Sono complessivamente 5 mila quelle che rientrano in questa categoria. Per questo tipo di aziende sarebbe importante puntare anche sulla cooperazione. Detta così sembra facile, in realtà non lo è perché siamo abituati a lavorare ciascuno per sé. Ma oggi è una filosofia perdente».
Del resto, se il mercato locale tutto sommato tira, perché un imprenditore dovrebbe puntare sulle esportazioni?
«Perché un imprenditore non può mai fermarsi. La ricerca di nuovi mercati rappresenta una grossa sfida che impone all'imprenditore di crescere da tutti i punti di vista: deve offrire prodotti di alta qualità che siano innovativi e al tempo stesso competitivi sul prezzo. Deve affinare le tecniche di commercializzazione del prodotto e deve conoscere bene le lingue».
Quali sono i settori che puntano sull'export?
«L'alimentare con aziende come la Loacker, le tecnologie alpine, il settore metalmeccanico (Iveco e Leitner); le cooperative con vino e mele».
L'export ha risentito della crisi?
«Poco. Fatta eccezione per tutto ciò che è legato al settore dell'auto».
In quali campi c'è un potenziale di miglioramento?
«Nell'edilizia, ad esempio».
Un settore in crisi.
«Il mercato altoatesino è diventato troppo piccolo rispetto al numero di imprese che oggi operano in questo campo».
E quindi?
«Devono unirsi ed uscire dal mercato locale».
Cosa possono offrire?
«Tanto per cominciare abbiamo il marchio Casaclima da esportare. Oltre al fatto che le ditte altoatesine all'estero sono sinonimo di qualità, serietà, affidabilità».
Oltre all'edilizia cosa possiamo esportare?
«Servizi per quanto riguarda il settore economico-finanziario, spaziando dai contratti internazionali, alle comunicazioni, alle traduzioni. Nessuno come noi può offrire servizi di alta qualità in questo campo».
Qualcos'altro?
«Possiamo esportare l'idea di Alto Adige che nell'immaginario collettivo significa rigore, affidabilità, precisione, alta qualità della vita, per attirare capitali da fuori».
Ciò implicherebbe l'apertura di nuovi sportelli?
«Non necessariamente. Vanno bene gli istituti di credito che già ci sono».
Qual è l'incidenza del settore monetario sul Pil?
«È un'incidenza bassa: 5,1%. Contro il 5,3% nazionale e il 6,9% della Lombardia. Anche in questo caso le cifre dimostrano che ci sono ancora notevoli margini di miglioramento».
Un'economia che punti con maggior decisione sull'export ha però bisogno di infrastrutture migliori di quelle attuali.
«Su questo non c'è dubbio. Un'economia che funzioni ha bisogno di mezzi di trasporto veloci, a partire dall'aeroporto».

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