Fare i conti con l'oste

di Paolo Campostrini


Paolo Campostrini


Durnwalder e Pan fanno due lavori diversi. Uno pensa ad amministrare e a essere rieletto, l’altro all’interesse della sua impresa. In sostanza: la Provincia dovrebbe badare al pubblico, cioè a noi, le aziende al privato, cioè a loro. Durnwalder non è obbligato a fare utili per sopravvivere, Pan sì. Tuttavia in tempi di crisi queste differenze tendono a sfumarsi: se non diminuisce almeno le perdite, anche il pubblico rischia di venir meno alla propria missione che è quella di essere motore non imballato degli interessi generali, quelli nostri e quelli di Pan. E’ questo che spiega le tensioni tra Provincia e mondo dell’economia. Chi lavora nel privato teme che il pubblico non cambi passo impigrendosi nel non percepire la profondità della crisi; o che comunque la filtri attraverso una consuetudine tutta «pubblica» al rinvio e alla concertazione. La politica sa, a sua volta, che deve accelerare il cambiamento ma presume che usando gli strumenti in suo possesso debba pagare costi elettorali insopportabili. Da qui la sua insofferenza: è costretta a fare i conti con i numeri e non solo con i voti e i numeri dicono che i conti pubblici non quadrano più.
Per questo il confronto tra Provincia e imprese ci riguarda tutti. Il piano su cui si sta sviluppando non è più (o non è soltanto) sulla quantità di contributi ma sulla qualità delle riforme; si dipana interrogandosi sulla capacità dell'amministrazione provinciale di rigenerarsi, tagliando i costi fissi e improduttivi che tolgono risorse vitali a settori strategici per la ripresa; sulla possibilità che possa agire in modo strutturale e non più tattico.
Le imprese lo chiedono naturalmente anche per i propri interessi: una macchina pubblica più agile vuol dire meno costi per loro. Ma anche per noi: e qui risiede la trasversalità del confronto. Fino a quando la Provincia potrà permettersi ospedali di periferia senza tagliare le prestazioni sanitarie «erga omnes»? O pagare un'esercito di provinciali evitando di far ricadere i costi di una mancata riorganizzazione su tutti gli amministrati, imprenditori e no?
La quota dei dipendenti pubblici in Alto Adige è del 24%. In Svizzera del 13%; in Austria, una delle culle della socialdemocrazia, del 18%. Siamo fuori mercato: questo è il problema. Prima ce lo potevamo permettere, ora non più: e questa è la novità. Le risorse dell'autonomia non sono sconfinate ed essa non potrà più giustificarsi solo attraverso la sua autorappresentazione plastica di distributrice di denaro statale e no, come storico contrappeso per le ingiustizie del secolo scorso.
L'autonomia e la sua conservazione di fronte ad una Europa merkeliana e ad una Italia federalista ma sparagnina, si giustificherà solo passando per la sua capacità di rigenerazione. Le si sta chiedendo di trasformarsi da slot machine di fondi a pioggia a impresa pubblica attenta ai costi e alla compatibilità; capace di darsi cornici amministrative diverse e agili. Ieri Oberrauch ha detto a Durnwalder: «Non chiediamo di licenziare dipendenti pubblici ma di frenare i costi sempre in salita di sanità e personale». Oberrauch sa che troppa spesa pubblica significa meno fondi per le sue imprese, anche quelle che innovano. Ma sono ormai sempre più estesi e trasversali i settori della società altoatesina che comprendono come la Provincia non potrà più insistere a lungo su una visione esclusivamente statalista e burocratica del suo ruolo.
Non sarà semplice. Perchè non si tratta più di cambiare soltanto passo ma anche gran parte della classe dirigente cresciuta a pane e contributi, nata ed allevata dentro le legioni degli impiegati provinciali, fucine di assessori e consiglieri. Non sarà facile ma non c'è via d'uscita. Tertium non datur, dicevano i latini: o la Provincia saprà cambiare pelle con le sue forze e con i suoi tempi o sarà costretta a farlo con quelli che le imporranno l'Europa e i mercati.













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