TRENT'ANNI FA

Filippo Rizzo, il “cavaliere delle rose”. Un sorriso in piazza Domenicani 

Il personaggio. Per quarant’anni ha venduto i fiori all’angolo con via Goethe. Molto amato dai bolzanini per la sua gentilezza, aveva lottato sin da bambino contro la scoliosi e la miseria. Scappò dalla Sicilia da ragazzo per trovare un lavoro e costruirsi una vita diversa


Alberto Faustini


C’era una volta Bolzano. Ripubblichiamo la testimonianza rilasciata nel 1991 al nostro direttore Alberto Faustini da Filippo Rizzo, il “cavaliere delle rose”, un volto conosciutissimo tra i bolzanini: ha venduto per quarant'anni i fiori in piazza Domenicani. Lo chiamavano il “cavaliere delle rose”, per la sua gentilezza e discrezione. È scomparso nel 2018 a 78 anni. Se volete rileggere una storia, scriveteci una email a: bolzano@altoadige.it.

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Il suo è un regno di fiori. Già, perché lui è il cavaliere delle rose. Molti conoscono il suo nome (Filippo), pochi il suo cognome (Rizzo), tutti, ma proprio tutti, il suo soprannome: cavaliere delle rose. Epiteto soave. Carico di poesia. Conquistato, in realtà, di fatica in fatica. Di sacrificio in sacrificio. Da un bambino costretto a diventare adulto dalla scoliosi e dalla morte della madre. Da un ragazzino che è diventato non solo uomo, ma anche stimato e apprezzato “cavaliere delle rose”. Ha lasciato la Sicilia nascosto sotto il sedile di uno scompartimento di un treno. Ha girato l’Italia dimostrandosi pronto a qualsiasi sacrificio pur di avere un lavoro onesto. E c’è riuscito. Raccogliendo, insieme a una briciola di fortuna, anche la gioia di una famiglia, l'amicizia della gente e l'affetto di Bolzano. Della sua Bolzano.

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Arrivo da un paesino che è ad anni luce da Bolzano. Si chiama Drano. Ed è in provincia di Catania. Una vita, la mia, che è iniziata subito salita. A 18 mesi - racconta Filippo Rizzo - mi è venuta la scoliosi. E quando avevo da poco compiuto i tre anni è morta mia madre. A farla morire, ne sono certo, è stato dispiacere causato dal dolore che provavo e dalla mia malattia. Mio padre si risposò, ma io non avevo nessuna intenzione di andare a vivere con la matrigna. Preferivo stare con la nonna materna, che era molto più gentile con me.

Un’esistenza in salita

All’inizio la mia è stata una vita sbandata. Quando avevo 8 anni la nonna mi mandò in un collegio. Ne uscii a 15 anni. In tutto quel tempo avevo visto qualche volta la povera nonna, che era purtroppo morta molto presto, ma mai mio padre e la mia matrigna. Appena hanno saputo che stavo uscendo dal collegio hanno fatto però in modo che io andassi a vivere con loro. Ma si lamentavano, perché non portavo a casa soldi. Mi facevano dunque andare di traverso anche la poca minestra che si riusciva a mangiare in quegli anni difficili. Non c’erano molte possibilità di lavoro: o muratore o contadino. Per me le opportunità erano ancora minori. A causa delle mie condizioni fisiche nessuno mi offriva un lavoro. Ma mio padre e la mia matrigna sembravano proprio non capirlo. Per un periodo guardai le mucche. Poi feci l’ortolano e raccolsi quindi olive e castagne. Ma appena non portavo a casa del denaro, i “miei” si lamentavano. Decisi allora di scappare. E andai da mia sorella, che abitava in un altro paese, a una quindicina di chilometri. Appena là lei mi consigliò di chiedere aiuto al parroco. Ma anche quel parroco, come del resto quello del mio paese, non poté fare nulla. Mi disse che non potevo andare in giro senza documenti e mi consigliò di rientrare a casa. Lo feci, ma solo per recuperare i documenti. Poi scappai di nuovo. In autostop, dopo mille peripezie, raggiunsi un altro zio che abitava a Villa San Giovanni. Ero convinto che stesse bene, ma appena vidi dove e come viveva capii che mi ero sbagliato. Grazie a Dio un signore mi trovò, mentre dormivo sotto un giroscale, e per 15 giorni mi sfamò e, grazie a un fratello che aveva un negozio di vini, mi diede da lavorare. Ma non mi trovai bene. E mi sembrò, a quel punto, di avere solo una possibilità: tornare in paese, recuperare gli ultimi documenti, e andare Roma, per tentare di fare fortuna. Salii allora su un vagone del treno e, dal momento che on avevo il denaro necessario per acquistare il biglietto, mi nascosi sotto i sedili. Restai lì per ore.

Dallo zio che abitava vicino a Roma era praticamente inutile andare e ora decisi di affrontare il destino. Recuperai, con i pochi soldi che avevo conservato, alcune cartoline e andai in piazza San Pietro. Volevo venderle, ma alcuni “concorrenti” m’impedirono di farlo. Spedii allora le cartoline ad alcuni amici e andai a sedermi su una panchina. Accanto a me alcune persone anziane parlavano dei giovani, “che non hanno voglia di lavorare”. Io mi arrabbiai e dissi loro che avevo una gran voglia di darmi da fare. A mancare - dissi - era il lavoro, non la voglia di lavorare. Mi dissero che al nord, e in particolare a Bologna, sarebbe stato più semplice lavorare. E allora presi un altro treno, sempre nascondendomi sotto i sedili. In realtà arrivai però a Milano. Quando il convoglio passò da Bologna ero infatti addormentato. Decisi di andare in una chiesa. Io sono infatti sempre stato molto cattolico e ho sempre avuto tanta fiducia, nei parroci. Il parroco mi diede l’elemosina. Ma io gli spiegai che non avevo bisogno di gesti del genere, ma di lavoro. Ma mi resi conto che non avrebbe potuto fare nulla per me e decisi allora di andare dall’arcivescovo.

Ad attendere d’incontrarlo c’era, tra gli altri, anche un signore molto disponibile, che mi parlò con gentilezza. Gli raccontai la mia situazione e lui mi diede il suo indirizzo e del denaro per mangiare.

Non dimenticherò

quei benefattori

Venne il mio turno. E mi chiesero l’invito. Io non l’avevo e non sapevo che, per parlare con l’alto prelato, fosse necessario. All’usciere spiegai come mai ero arrivato lì e perché non avevo l’invito e lui mi consigliò di andare a chiedere informazioni in via Guastalla, all’ufficio delle Acli. Ma anche lì non mi diedero informazioni molto precise: mi consigliarono di andare in un posto, ma quando lo raggiunsi scoprii che avevano già assunto un’altra persona. Non sapevo più che fare e decisi di andare a trovare il signore che avevo conosciuto nell’anticamera dell'arcivescovo. Mi trovò da dormire e da mangiare. E per sei mesi, di fatto, mi mantenne. Temevo che volesse qualcosa da me e già pensavo di scappare ma poi mi accorsi che non nascondeva nulla e che era una persona veramente buona. Nel frattempo trovai lavoro in uno scatolificio e riuscii a trovare posto, a una cifra che potevo permettermi, nella casa di una famiglia. Il mio rapporto con il signore conosciuto dall’arcivescovo continuava comunque a rafforzarsi. In fondo avevamo molte cose in comune. Lui, rimasto vedovo, aveva deciso, per il grande dolore, di lasciare il suo paese in Toscana e di trasferirsi a Milano. Io, rimasto orfano, avevo avuto una storia simile. Quando i bambini dei signori dai quali vivevo si fecero cresimare decisi di farlo anch'io e chiesi al mio benefattore di farmi da padrino. Accettò con entusiasmo. Dopo un certo periodo lasciai lo scatolificio e andai a fare il saldatore elettrico. Poi iniziai a lavorare per l'Eldorado. Vendevo gelati in un cinema e, per guadagnare qualche lira in più, mi occupavo anche della pulizia del locale. Alle volte, però, mi addormentavo durante i film. Dovevo infatti alzarmi alle 5 per pulire. Dalle 10 alle 24, poi, il dunque occuparmi della vendita di bibite e gelati. Ero insomma stravolto e quando un mio lontano cugino mi propose di andare con lui a vendere fiori accettai con entusiasmo. Poi mi accorsi che voleva solo sfruttarmi e che, essendo senza licenza, mi usava come “parafulmini”. Me ne andai, ma il lavoro mi piaceva e decisi allora di prendere la licenza e di iniziare a vendere fiori. Ho lavorato a Bologna, in Liguria, in Piemonte, in Veneto. Prendevo i fiori a Sanremo e poi li vendevo in tutta Italia. Nel 1962 arrivai per la prima volta a Bolzano. Il mio punto d’appoggio era la Poa. La città mi piaceva e avevo trovato posto davanti al negozio Stilnovo, a pochi metri da dove sto oggi (nel 1991, ndr), in piazza Domenicani. La famiglia Busellato, proprietaria del negozio, mi aiutò tantissimo. A livello economico, ma anche e soprattutto morale. Mi hanno consigliato, capito, aiutato. Ed è su loro consiglio che nel ’72 decisi di prendere la residenza a Bolzano. Nel frattempo mi sono fidanzato, con una ragazza conosciuta in Sicilia, e poi mi sono sposato. Il matrimonio e la famiglia sono le più grandi gioie della mia vita. Ma c’è un’altra gioia che mi piace ricordare: prima di morire il mio benefattore ha potuto conoscere mia moglie e anche mia figlia. Per me, ma anche e soprattutto per lui, è stata un’immensa soddisfazione.

Al mare con un cesto di fiori

Tra il 1962 e il 1972 ho passato l'inverno a Bolzano e l'estate ad Alassio, in Liguria, dove ho conosciuto moltissimi vip. È là, dove giravo con cesti pieni di rose rosse, che hanno iniziato a chiamarmi cavaliere delle rose. Un soprannome che mi è subito piaciuto. Se guardate le mie foto vedete che sono sempre sorridente. E questo perché a Bolzano, come ad Alassio ad esempio, tutti mi vogliono bene. Ormai sono diventato un personaggio caratteristico. E mi fa piacere. Nel 1972, quando mi sono sposato, mi sono stabilmente trasferito a Bolzano. L’Ipeaa mi ha assegnato una semirurale e per me è stato come vincere al Totocalcio. La mia famiglia, la mia casa e il mio lavoro mi rendono allegro. E spero che il racconto della mia vita, un’esistenza piena di difficoltà ma anche di soddisfazioni e di amicizie vere, possa far capire che trovare la felicità è possibile e che mangiare un piatto di cipolle tra gente che ti vuole bene vale molto di più di una ricchezza passata nella solitudine, lontano dagli affetti.

 













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