Gioco d’equilibrio: l’alpinista cieco che scala il mondo

La sua autobiografia è già un bestseller In libreria finalmente l’edizione italiana


di Mauro Fattor


Quando si presenta la sua mano arriva come un fulmine. Basta stringerla e si fila via lisci evitando tentennamenti, incroci mancati e tutti quei piccoli imbarazzi che fanno da copione al primo approccio tra un vedente e un non vedente. Poi sorride e inizia a parlare guardandoti negl’occhi. «Ho imparato in fretta - si schernisce Andy - sono semplici accorgimenti per far dimenticare rapidamente al mio interlocutore che ha davanti uno che non ci vede. Così poi parliamo delle cose che ci piacciono. Di montagna». Andy Holzer, 47 anni, tirolese di un paesino a pochi chilometri da Lienz, è infatti cieco dalla nascita. Professione: alpinista. Come, come? Meglio ripeterlo, perchè altrimenti uno non ci crede: a-l-p-i-n-i-s-t-a.

Per entrare nel ristretto club dei “Seven summits”, cioè degli alpinisti che hanno salito tutte le cime più alte dei sette continenti, gli manca solo l’Everest. L’ultima, nel dicembre del 2010, è stata il monte Vinson in Antartide. Nelle Dolomiti, tra le altre cose, ha all’attivo la “Comici” sulla Nord della Grande di Lavaredo (seicento metri con difficoltà fino al settimo grado), la Cassin sullo”Spigolo Giallo” della Piccola, sempre sulle Tre Cime, la sud del Laserz (VIII-). Tutte vie ultratoste anche per uno che ci vede benissimo. Percorse da secondo di cordata, si intende.

Ma mica finisce qui. Perchè da primo, in cordata con un altro cieco, ha “tirato” sulla Rampa sud della Roter Turm, nelle Dolomiti di Lienz, un quinto secco. E poi, visto che la fame vien mangiando, in compagnia dei suoi carissimi amici Hugh Herr, con due protesi di metallo al posto delle gambe, e di Erik Wehienmayer, cieco come lui, si sono detti: perchè no? E così il “trio meraviglia” hop-hop-hop, ha bruciato un tiro dopo l’altro senza colpo ferire la Cassin sulla Sud della Torre Preuss. Per la cronaca: VII-.

Ciò detto basta e avanza per capire che tipo è Andy Holzer. Se qualcuno pensa che sia un matto, un invasato, si sbaglia di grosso. O meglio, matto un po’, quanto basta (grazie a dio!). Invasato per niente. Innamorato della vita, tantissimo. Holzer mercoledì scorso è stato a Trento, nell’ambito delle iniziative promosse da “Aspettando il Film Festival”, per la presentazione in prima nazionale dell’edizione italiana del libro “Gioco d’equilibrio”, in cui l’alpinista austriaco racconta la sua storia. Il libro, che nell’area tedesca in un paio d’anni è già arrivato alla sesta edizione e che vanta persino una traduzione in coreano, ora è disposizione del pubblico nazionale grazie all’editore Keller di Rovereto.

Holzer, accompagnato dalla moglie Sabine, era raggiante. Abbronzato come può essere abbronzato solo uno che fa cento giornate all’anno di scialpinismo (pura verità nel suo caso), quando gli hanno fatto notare che aveva un colorito invidiabile, con un sorriso ha pubblicamente ringraziato la sua estetista. Ecco Andy è così. L’abbiamo intervistato.

Lei sostiene che la sua vita è divisa in due parti: fino ai vent’anni ha fatto di tutto per nascondere la cecità, dai vent’anni in poi ha smesso di combatterla e l’ha accettata. Cosa è cambiato?

«Dipendere dagli altri oggi per me non è un peso, e soprattutto, raggiungere un obiettivo insieme è una cosa meravigliosa. È da presuntuosi credere che a questo mondo ci sia qualcuno davvero indipendente. Una volta che si è capito che ciascuno di noi ha un’abilità con cui può contribuire alla riuscita di un’impresa, il gioco è fatto. Si sprecano molte energie se si cerca di nascondere le proprie debolezze mettendosi in testa un falso senso di superiorità. Quando ero giovane non la pensavo così, ma almeno nella mia “seconda vita” , ho capito che era sbagliato».

I suoi compagni di cordata che persone sono?

«Sono persone molto speciali, che spesso gli altri non riescono a comprendere e per cui andare in montagna è molto più di un semplice esercizio fisico. Chi pensa solo a battere record, ad essere sempre più rapido su pareti sempre più difficili, non verrà mai in montagna con me».

C’è sempre molta leggerezza nelle pagine del suo libro, molta ironia. Non c’è neppure un’ombra di autocommiserazione.

«Beh, senta, da uno che ha come motto “fidandosi ciecamente si può arrivare lontano”, che cosa si aspettava? (Ride). Quando sono arrivato in cima alla Roter Turm, nelle Dolomiti di Lienz, con il mio amico Erik (Wehienmayer, il non vedente americano con cui forma l’unica cordata di alpinisti ciechi al mondo, ndr) , ero talmente contento che ci siamo abbracciati e gli ho detto per scherzo: “Ehi Erik, guarda laggiù, si vede la mia casa”. Sa cosa mi ha risposto? “Quale? Quella con il tetto rosso?”.

Come fa a orientarsi in parete, ad arrampicare?

«Ho imparato ad usare al meglio i sensi di cui dispongo. Una persona normovedente acquisice l’80% delle informazioni che gli servono per interagire con l’ambiente esterno attraverso gli occhi. Io ovviamente non posso. Però sono in grado di costruirmi una topografia piuttosto precisa della parete che sto affrontando e delle caratteristiche della roccia sfruttando l’udito, l’olfatto e il tatto. Esempio: ogni montagna ha un proprio odore, sa di zolfo quando la roccia è resa friabile dall’erosione e io lo sento. Come sento l’odore di umidità che emana dalle fessure più profonde. E poi c’è il tintinnio dei moschettoni del mio compagno che sale e la sua voce durante le manovre di corsa. Altrettanto utili sono gli spostamenti che provocano cadute, magari quasi impercettibili. di materiale lungo la parete. Tutti elementi che mi permettono di memorizzare la traiettoria del tiro che dovrò affrontare e di capirne l’ inclinazione e il tipo di roccia».

Uno dei capitoli più belli del libro, forse il più bello, è quello in cui descrive in che modo un cieco si costruisce una mappa percettiva dell’ambiente circostante, al punto da vederne i colori.

«Verissimo. Il mio colore preferito è sempre stato il celeste. Ricerche scientifiche hanno dimostrato che, a livello cerebrale, il centro della visione è attivo anche nei non vedenti. Questo significa che la mia rappresentazione interna del mondo è a “colori” come quella di una persona che ci vede normalmente. Colori differenti per me sono associati a stimoli diversi, mnemonici - o acquisiti attraverso le descrizioni di altri - olfattivi, tattili. Perciò sento il rosso come piacevole calore e il blu come piuttosto freddo. Ovviamente io non so se i miei colori corrispondano a quelli reali, ma certamente non vivo in un mondo trasparente, fatto di oggetti senza identità cromatica».













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