«Giudicare è facile ma il “whiteout” non lascia scampo» 

Le parole di Reinhold Messner sulla tragedia in Svizzera raccontano di condizioni estreme, stanchezza e paura



BOLZANO. Lo choc per la terribile tragedia sulle Alpi Svizzere ha scosso dal profondo il mondo dell’alpinismo, non solo quello bolzanino. In molti, in queste ore, puntano il dito contro le scelte fatte dalla guida alpina comasca Mario Castiglioni, anche lui morto insieme alla moglie Kalina Damyanova, anche lei guida. Accuse corroborate dalle dichiarazioni dell’unico sopravvissuto alla catastrofe, l’architetto milanese Tommaso Piccioli.

Ma non mancano le voci fuori dal coro, quelle che invitano a non farsi trascinare dal dolore del momento per lasciarsi andare alla caccia di un capro espiatorio. «Sono morti per “il whiteout” – ha spiegato Reinhold Messner in numerose interviste – Una sorta di nebbia di neve e vento gelido fortissimo, quando ti ci trovi in mezzo non c'è colpa, perché non si vede più niente. Da quello che ho capito – continua la leggenda dell’alpinismo, che nelle scorse ore ha presentato al Trento Film Festival la sua opera come regista “Holy Mountain”, che racconta il salvataggio di cui lo stesso Messner fu protagonista 1979 sul monte Ama Dablam, in Nepal – le condizioni erano queste e purtroppo è accaduta una tragedia. In quelle condizioni se metti una mano sul viso, la vedi, ma i piedi no. Basta essere a 100 metri da un rifugio ed è impossibile trovarlo».

A chi gli chiede se le guide abbiano sopravvalutato se stessi, Messner risponde senza esitazioni. «No, non penso. Quello da Chamonix a Zermatt è un percorso classico su cui si cimentano migliaia di persone ogni anno. La comitiva era composta da scialpinisti esperti e ben addestrati. La guida alpina ha cercato disperatamente il rifugio, ma è precipitato e ha persona la vita: probabilmente ha pensato di poter condurre la comitiva al sicuro prima che il tempo peggiorasse, ma poi lui è morto e gli altri sono rimasti senza guida. Ma da qui non è facile capire di preciso cosa sia successo. Ho sperimentato personalmente cosa sia “il whiteout” per centinaia di volte. Sul Mansalu, ad esempio, dove ho passato molte, molte ore nel whiteout. Se qualcuno si arrende, si scoraggia perché ha la sensazione di girare in tondo e poi s’accascia, allora per lui è finita. E anche molto, molto velocemente». Il freddo. Il freddo che, come ha raccontato Piccioli, ti fa addirittura perdere il controllo del tuo corpo e battere i denti tanto da essere un pericolo per la lingua. «Con il vento forte e il freddo, come ho capito è successo in Svizzera, se non hai un’esperienza estrema perdi la testa – prosegue Messner – La bufera ti butta giù e la morte ne è la conseguenza. Pensiamo che i vestiti, le scarpe e i gps di adesso ci mettano al sicuro, ma la montagna è sempre pericolosa».

In queste ore molti si chiedono come sia possibile morire congelati a poche centinaia di metri dal rifugio, con un cellulare e un gps. E Messner ripete quanto sia micidiale “il whiteout”. «È possibile – ripete – e lo capisci solo una volta che ti sei trovato in quella situazione. Finché stai in fondovalle e decidi di restare al rifugio e di proseguire domani, oppure sei arrivato al rifugio in tempo, non c'è problema. Ma una volta che ti trovi nel “whiteout”, cento metri sono sufficienti per essere completamente perduti. Anche cento metri rappresentano una distanza infinita».

Cosa fare, allora, per cercare di sopravvivere in una situazione tanto estrema. Continuare a muoversi? Cercare di scavare una buca in cui trovare riparo? «Muoversi è una possibilità – ha spiegato l’alpinista altoatesino – ma prima o poi ti mancherà l’energia. E poi ci si stanca e le persone si lasciano morire. Finché ci si muove, non si muore, ma quando ci si ferma la situazione precipita. Questi scialpinisti probabilmente si sono stretti assieme, sperando di salvarsi». Per quanto riguarda la possibilità di creare una truna, Messner non nega che possa essere d’aiuto, «ma hai bisogno di tutto: una pala, l'energia e soprattutto di qualcuno che dia le istruzioni. Uno che dica, “ora lo fai”. La storia del mio nuovo film parla di questo. Peter Hillary, figlio di Edmund Hillary, dice all'improvviso che uno dei quattro scalatori, rimasto incolume, è diventato come un generale. Solo così si sono salvati». Ad un architetto bolzanino che afferma si siano fatti grossi errori, Messner risponde con poche parole. «Lui era lì, quindi può dirlo. Io non ero lì, quindi non voglio giudicare. Troppo facile giudicare dopo che i fatti sono accaduti. Il mio pensiero è chiaro da sempre: l'errore principale di noi alpinisti è fare alpinismo. Se non lo facciamo, non può accadere nulla. Se vado, quindi è sempre possibile che accada qualcosa».













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