Gli italiani e lo slancio all'autonomia

di Francesco Palermo


Francesco Palermo


Nel breve volgere di nemmeno un anno se ne sono andati i tre principali artefici del secondo statuto di autonomia. La scomparsa di Alcide Berloffa segue di pochi mesi quelle di Alfons Benedikter e di Silvius Magnago. Anche simbolicamente si chiude un ciclo. La fase della lotta per l’autonomia e della costruzione dello statuto entra definitivamente nella storia insieme ai suoi principali protagonisti. Tre, due tedeschi e un italiano, la perfetta simbologia della proporzionale, colonna portante di quella fase. Fiumi di inchiostro e ampie riflessioni scientifiche sono state dedicate alla storia dell’autonomia, ma quasi sempre nell’ottica dei vincitori. Poca attenzione ha ricevuto invece l’osservazione dell’autonomia dalla parte dei perdenti, di quel gruppo italiano che sull’altare dell’autonomia ha dovuto (e saputo) sacrificare potere e rendite di posizione. Non basta comprendere di essere nel versante perdente della storia per accettare di buon grado un ridimensionamento. Berloffa l’aveva capito, ed ha saputo trasmettere con pazienza la cultura autonomista al gruppo italiano. C’è voluto molto tempo, forse qualche errore, il processo non è ancora del tutto concluso, ma il successo dell’operazione è ormai fuori discussione. Non è stato facile far accettare a larga parte del gruppo tedesco un compromesso che significava sì rinuncia all’autodeterminazione, ma anche conquista del potere e del benessere. Ancor più difficile è stato far digerire al gruppo italiano che le circostanze erano cambiate, che il potere andava ceduto per garantire pace e benessere per tutti. Che non si trattava di ottenere forse meno di ciò che si sperava ma assai più di quanto si aveva, bensì di rinunciare e basta, per riparare ad un torto la cui colpa era della storia. Per il bene superiore della convivenza, che è una bella parola ma che non si mangia. Questo processo ha significato rinunciare a posti di lavoro nell’unico settore di sboco naturale della comunità italiana, il pubblico impiego, a cariche dirigenziali, a potere economico, a prestigio sociale. Berloffa e la DC di allora (non tutta, tra l’altro) furono soli davanti alla difficile impresa di far comprendere, accettare e digerire tutto questo. Ma fu fatto ciò che era giusto. Umanamente, con qualche errore, ma nella certezza della inevitabilità della traiettoria. Ora che i padri dell’autonomia non ci sono più, e che il gruppo tedesco mostra nuovi mal di pancia, tocca di nuovo agli italiani di questa terra dare un contributo importante allo sviluppo dell’autonomia. Accelerare lungo la strada delle riforme, per far vivere lo statuto adeguandolo ai tempi. Smettendo di ragionare in termini di potere da cedere o da conquistare, quasi fossero trincee di una guerra di posizione, e pensando piuttosto in chiave di vantaggi territoriali, di opportunità, di multilinguismo, di mobilità, di integrazione tra culture che vanno arricchendosi reciprocamente, anche grazie all’apporto di nuove diversità. Attenuando la logica di gruppo a vantaggio di un “noi” collettivo. Gli italiani sono su questo in posizione di vantaggio, perché hanno una minore identità di gruppo. E tocca a loro fare il primo passo. La macchina che i padri dell’autonomia ci hanno lasciato funziona ancora bene. Non solo per le garanzie che offre e per la loro solidità, ma anche e soprattutto per la capacità di adeguamento ai tempi e alle nuove esigenze. Un esempio per tutti, e tra i più contestati: il censimento. Mai finora si è andati alla conta etnica con le stesse regole della volta precedente. Le regole del 1991 erano diverse da quelle del 1981, quelle del 2001 da quelle del 1991 e quelle dell’ormai prossimo censimento del 2011 molto cambiate rispetto a dieci anni fa. In meglio. Diversi problemi restano, a partire dalla raccolta di dati sensibili di molte persone che la dichiarazione non la useranno mai, ma la disciplina odierna è assai meno problematica e invasiva di quella del 2001, che a sua volta era migliore di quella precedente, e così via. E questo vale per tanti altri settori chiave del delicato sistema creato dallo statuto: dal bilinguismo alla proporzionale, dalle tecniche di governo (divenute complessivamente meno elitarie e più partecipative, anche se ancora troppo poco) alle relazioni finanziarie con lo Stato, dai rapporti con l’Europa alla cooperazione transfrontaliera. L’evoluzione dell’autonomia e della convivenza è insomma, nel lungo periodo, positiva. Soluzioni perfette non ce ne sono, e ogni compromesso richiede dei passi indietro. La direzione, però, conta più della meta. Spetta oggi alle nuove generazioni mostrare di saper aggiornare il patto che i padri dell’autonomia hanno lasciato. Adeguarlo rapidamente ad un mondo che corre molto più veloce di allora. Non ci sarà un nuovo Berloffa, soprattutto perché oggi i processi decisionali sono più complessi, e non si riducono a singoli leader. Ma c’è bisogno di una classe dirigente che sappia guardare in avanti, programmare il futuro, immaginare il nuovo ordine delle cose. Come i grandi architetti che hanno recentemente presentato progetti, o meglio visioni, per la nuova stazione di Bolzano e per la città del futuro. Analoga capacità di visione e progettazione manca purtroppo alla politica. Diceva Machiavelli che non c’è nulla di più difficile e pericoloso che dare un nuovo ordine alle vicende umane. Questo i padri dell’autonomia lo sapevano bene: hanno rischiato ed hanno avuto successo. I loro figli politici, invece, sembrano talvolta dimenticarlo.













Altre notizie

Attualità