«I nostri figli down: all’inizio sei disperata ma poi l’amore vince»

Le testimonianze dei genitori: bisogna affrontare i momenti critici e accettare la diversità dei bambini



BOLZANO. Il buio di quel pozzo in mezzo alla campagna di Caldaro ha inghiottito Evi Drescher e Martina, la sua bimba. Ma il buio della disperazione aveva già offuscato la mente della maestra d'asilo di Pianizza di Sopra, descritta da tutti come una persona equilibrata: scoprire che Martina, nata il 24 febbraio, era affetta dalla sindrome di Down ha avuto l'effetto di una mazzata. Forse, non è stata la causa unica, ma certamente quella scatenante. Nessuna speranza, nessun futuro: l'angoscia che ha sconvolto l'esistenza normale di una donna normale, è quella che vivono in Alto Adige le coppie - in provincia di Bolzano nascono ogni anno in media 6-7 bambini Down - che scoprono che il figlio cercato, voluto, amato è affetto dalla sindrome descritta nel 1862 da John Langdon Down. Gli altri al di là del buio però hanno intravisto la luce che ha dato loro la forza di andare avanti. Abbiamo raccolto tre storie; tre modi diversi di reagire di fronte ad un verdetto pesante per tutti da accettare. Claudia Zucchi, che gestisce con la sorella l'omonima agenzia di viaggi, ha scoperto qualche giorno dopo il parto che Roberto, il suo primo figlio, aveva la sindrome di Down. «Il mondo mi è crollato addosso: la gioia è diventata disperazione. All'epoca avevo 31 anni e il ginecologo mi aveva sconsigliato di fare l'amniocentesi (l'esame che consente la diagnosi prenatale, ndr), in quanto non rientravo nelle categorie a rischio (dopo i 35 anni l'esame è gratuito perché aumentando l'età della madre cresce in modo esponenziale il rischio; si fa prima solo se ci sono altri casi in famiglia; la donna può decide di sottoporsi comunque al test ma in questo caso è pagamento, ndr). Subito dopo il parto il piccolo è stato portato in terapia intensiva ed è stato comunicato solo a mio marito che c'era il sospetto che fosse Down. A me l'hanno detto solo dopo e la prima reazione, lo confesso, è stata di rifiuto. Sensazione che si è accentuata quando il medico mi ha fatto l'elenco di tutte le patologie che il bambino avrebbe potuto sviluppare, fortunamente almeno da questo punto di vista, le cose sono andate meglio del previsto». Claudia ha toccato il fondo della disperazione, ma è riuscita a risalire più forte di prima: «In questi casi è determinante il contesto familiare: il marito, i parenti, gli amici. Non ti devi sentire sola e devi subito entrare nell'ottica di far fare al bambino una vita il più normale possibile». Roberto, 8 anni, è andato all'asilo nido, poi alla scuola materna e adesso frequenta le elementari: «Sono contenta perché i compagni gli vogliono bene e lo coinvolgono. Poi è arrivato il fratellino per il quale Roberto stravede. Noi genitori abbiamo ovviamente dovuto abbassare notevolmente le nostre aspettative su di lui: sappiamo che le sue capacità di apprendimento non consentono di andare oltre un certo livello. Ma ce la mettiamo tutta, perché possa raggiungere la maggior autonomia possibile. Un consiglio alle mamme? Fate l'amniocentesi e fatevi aiutare; ascoltate i consigli di chi ha già vissuto sulla propria pelle l'esperienza di un bimbo Down e vi accorgerete che non è tutto buio».

Una di queste è Renate Schwienbacher, infermiera in pediatria, che nel 2004 quando è nato Samuel ha deciso assieme ad altre sei famiglie di costituire l'associazione «Il sorriso», che ha sede a Merano e rappresenta oggi un punto di riferimento. A loro si era rivolta anche Evi. «Quando hai un bimbo Down devi combattere ogni giorno: ogni progresso è una conquista, mentre per un altro bambino fa parte dello sviluppo normale». Anche Renate Schwienbacher non aveva fatto l'amniocentesi, perché l'esame della plica nucale del feto aveva dato per ben due volte risultato negativo. Poi però in lei ha cominciato a insinuarsi il sospetto: «La quantità di liquido amniotico era fuori norma come può succedere nei casi di bambini Down, ma ormai ero alla 24º settimana. Troppo tardi. Sono entrata nell'ordine di idee che il mio cucciolo, tanto cercato e desiderato, potesse essere affetto dalla sindrome. E in ogni caso sono sempre stata convinta che si tiene ciò che arriva. Ero dunque preparata; la nascita ha semplicemente confermato il sospetto».

Oggi, quando in ospedale nasce un bimbo Down, il medico propone subito ai genitori di parlare con Renate. «Ho visto tante lacrime in questi anni, perché l' accettazione della diversità è difficile. Perché sapendo poco di questa sindrome, si vede la propria vita stravolta. L'importante è documentarsi, conoscere e soprattutto avere intorno persone che ti aiutano. La maggior parte delle famiglie, dopo un naturale momento di smarrimento, reagiscono e vanno avanti giorno per giorno. Ma c'è anche chi non se la sente e dà il figlio in adozione. Recentemente una coppia con figli ha adottato un piccolo Down. Una scelta di amore».

«La gente spesso non sa - dice Paolo Orlandoni, bolzanino portiere dell'Inter, papà di Giulia, Cesare ed Emma, quest'ultima affetta da sindrome di Down - che negli ultimi 50 anni si sono fatti passi da gigante nella cura e nelle terapie dei bimbi Down. So che la mia piccola, che oggi ha 4 anni, avrà qualche scoglio in più da superare, ma ce la farà. Oggi c'è una ragazza di 18 anni Down che mi scrive in facebook: in lei vedo la mia Emma».













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