Sanità

"I pazienti più difficili da curare? I No vax"

Bolzano, la storia del team Usca raccontata dal suo coordinatore, Jacopo Carraro


Antonella Mattioli


BOLZANO. «Quando tutto è iniziato avevamo tre tipologie di pazienti: leggeri, medi, gravi. A questi si è aggiunta una nuova categoria, quella dei malati no-vax. Rappresentano oggi più del 50% dei pazienti che seguiamo quotidianamente e sono i più difficili. Perché spesso non vogliono essere curati con i farmaci che prescriviamo; arrivano a negare di essere malati; mettono in dubbio l’esistenza stessa del Covid e l’efficacia delle medicine. È dura e lo è ancora di più dopo quasi due anni di pandemia, ma non molliamo.

La più grande soddisfazione è riuscire a far capire loro che non ci sono alternative al vaccino e non ci cure miracolose consigliate da qualcuno che approfitta delle loro paure. Una sconfitta il giorno in cui una signora - dopo che da una settimana andavamo tutti i giorni a portare la bombola di ossigeno al marito, per consentirgli di respirare - ci ha detto di non andare più. Secondo lei non serviva a nulla. Due giorni dopo è morto».

Jacopo Carraro è il coordinatore dell’Usca del comprensorio di Bolzano, l’Unità speciale di continuità assistenziale, costituita a livello nazionale nel 2020. Mission: seguire a domicilio i pazienti Covid che, in quel momento, con gli ospedali al collasso e i medici di medicina generale oberati di chiamate, erano abbandonati a loro stessi.

Trentasette anni, veneto d’origine, dopo aver lavorato a Trento è approdato alla Guardia medica di Bolzano: Carraro guida un team composto da tredici colleghi.

Tutti giovani. Sono medici di medicina generale; medici in formazione e del servizio di Guardia medica. In comune: la passione per il lavoro.

«Sono stati scelti su base volontaria - dice con orgoglio Alessandra Capici, vice primaria dell’Organizzazione dei servizi sanitari di base dell’Asl - e oggi rappresentano un team affiatato. In Alto Adige oltre a quella di Bolzano, ci sono altre tre Usca a Merano, Bressanone, Brunico. A livello nazionale si è deciso che anche quando la pandemia sarà finita, le Unità speciali rimarranno, perché è grazie a loro se molti pazienti Covid sono stati seguiti a casa, evitando di intasare ulteriormente gli ospedali».

Dottor Carraro, perché ha scelto di entrare a far parte dell’Usca?

All’ inizio della pandemia lavoravo presso il servizio di Guardia medica di Bolzano, facevo soprattutto i turni di notte: ricevevo le chiamate disperate di chi era a casa positivo. Isolato dal resto del mondo, con il virus che si faceva sempre più aggressivo e chiedeva aiuto. Avrei voluto fare di più, per cui quando sono nate le Usca ho deciso di esserci.

Come siete organizzati?

I turni sono organizzati su sette giorni alla settimana; dalle 8 alle 20. In media abbiamo dai 4 ai 6 medici per turno: 4 sono impegnati nelle visite domiciliari; uno si occupa di gestire, monitorare, segnalare al reparto di Malattie infettive i pazienti che potrebbero avere le caratteristiche per essere sottoposti a terapia monoclonale.

Quanti pazienti seguite in media al giorno?

Tra i 60 e i 70. Ogni giorno se ne aggiungono una decina di nuovi. Nell’autunno del 2020 ne avevamo 150 al giorno. La differenza la stanno facendo i vaccini.

Ma come si fa ad arrivare a voi; vi si può chiamare direttamente?

Il paziente ci viene segnalato dal Servizio di sorveglianza epidemiologica; dal medico di medicina generale, dal Pronto soccorso o dalla Guardia medica.

E andate a visitare tutti?

Ci mettiamo in contatto col suo medico di medicina generale; andiamo a visitare il paziente e poi a seconda della situazione lo teniamo costantemente monitorato via telefono e con periodiche visite.

Chi i sono i pazienti della quarta ondata?

Più del 50% sono soggetti non vaccinati.

Che differenza c’è tra un paziente vaccinato e uno “scoperto”?

La differenza sta nel modo in cui sviluppa la malattia. Nel primo - salvo rare eccezioni favorite anche dall’età avanzata e dalla presenza di altre patologie - i sintomi sono mediamente leggeri; chi invece non è vaccinato, è un paziente “instabile”. Il Covid è un virus subdolo: parte piano e poi può diventare molto aggressivo. Capita che quando sembra che il paziente stia migliorando, abbia delle improvvise ricadute.

Che strumenti avete in più oggi di un anno fa?

Il vaccino innanzitutto. Poi sappiamo prescrivere in maniera più mirata, a seconda del paziente, farmaci che usavamo già all’inizio; si sono aggiunte le terapie monoclonali che però possono essere somministrati solo ad un determinato tipo di paziente, ovvero nei primi giorni della malattia, quando ancora i sintomi sono leggeri però si teme un possibile aggravamento. Poi, a breve, dovrebbero arrivare nuovi farmaci specifici per il Covid. Ma intanto il consiglio resta lo stesso: vaccinatevi. E mi raccomando fate la terza dose.

E con i pazienti no-vax come vi comportate?

I problemi li abbiamo con loro. Non sono facili da seguire, perché hanno una serie di pregiudizi. Richiedono tempo e uno sforzo in più degli altri. Con loro dobbiamo essere anche psicologi per superare le barriere che frappongono tra noi e loro.

Scusi, ma dopo quasi due anni, dove trovate la forza e la pazienza per cercare di curare chi crede ancora che il virus non esista e che ci si possa curare con il tè di ortiche?

Dobbiamo cercare di capire le loro paure. Spesso e volentieri ci troviamo di fronte a persone confuse e sfiduciate. Il primo passo è prendersi il tempo di ascoltare le loro sofferenze e poi spiegare quali sono le terapie giuste da seguire.

Risultati?

Spesso ci riusciamo ed è la soddisfazione più grande. Altre volte no: le persone rifiutano sia le cure domiciliari che il ricovero. Dopo un po’ non rispondono neanche più al telefono. Qualcuno non sa più a chi credere.

In che senso?

Che c’è chi ha speso fior di quattrini inseguendo i consigli di profittatori che promettevano cure miracolose. E adesso non crede più a nessuno. Per cui quando prescriviamo le cure “tradizionali” capita di sentirsi dire: dottore voglio l’argento vivo.

E quando spiega i benefici del vaccino?

Qualcuno mi dice: “Dottore non parliamo di politica, per favore”.













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