Il borghese illuminato e il dramma del sequestro

I due mesi di prigionia lo segnarono per sempre, e cambiarono l’Alto Adige


di Paolo Campostrini


SEGUE DALLA PRIMA PAGINA. «Greti sei in casa?». No, e neanche Christoph. C'era solo la cameriera in via della Torre. Moglie e fratello non si aspettavano che tornasse così presto. Colpa del taxi preso a Brescia.

I rapitori gli avevano detto: sali sopra e non fiatare fino a Bolzano, se ti fermi ti torniamo a prendere. Ander Amonn che bussa alla sua porta dopo due mesi di prigionia in catene e un miliardo e settecento milioni di riscatto e la prima cosa che fa è cercarsi una lametta: «Non c'erano né mia moglie né mio fratello. Così ho pensato che la cosa migliore fosse farmi la barba». Quando la casa si riempie Ander ha la faccia piena di schiuma e sorride, come di ritorno da una trasferta con l'Hockey club. «Sì, era così»: Ennio Casciaro si riguarda l'ultima foto fatta con Ander, allo "Stammtisch" della Galleria Goethe, una bottiglia di vino bianco e quattro amici, tra i quadri. Il rito di ogni sabato, da tempo immemorabile.

«Era uno che diceva: ho una piccola cosa in giardino. Io ci vado, e scopro che era una statua di Marino Marini».

La vita di Amonn è stata una vita di grandi cose che lui tentava di mostrare piccole.

Poco prima del rapimento che segnò profondamente la sua vita (due mesi, dal 18 dicembre 1977 al 17 febbraio 1978) Silvius Magnago aveva detto, a proposito della nostra economia: «L'Alto Adige non è più un'isola». Il rapimento di Amonn certifica quello scarto, anche sociologico. Come trovarsi drammaticamente preda della normalità. Un bagno freddo. E, dopo, non si è più come prima. Anche Ander scartava. In anni (etnicamente) ancora di piombo, portava in giro quella sua faccia un po’ così, da sudtirolese per caso.

E da borghese illuminato, per natura più che per scelta.

Guardava sempre di sbieco a una politica ancora ben imbastita. Tedeschi da una parte, italiani dall'altra, richiami della foresta, difesa identitaria: Amonn passava in mezzo a queste cose con uno sguardo da bambino che fa finta di non capire di cosa si stia parlando.

«Io lavoro per mandare avanti le aziende e per far star bene i miei collaboratori: pensate un po' se dovessi mettermi a guardare se uno è tedesco o italiano o chissà cos'altro...», era sbottato a un convegno.

Riformista prima dei riformismi. Lontano dalle luci, senza parole grosse. «Mio zio sembrava sempre preoccupato di chiedere il permesso - ricorda una delle nipoti -. Il papà si metteva a parlare e continuava finchè non pensava di averti convinto. Lo zio Ander invece stava ad ascoltarti. Ma poi capivi che dalla sua idea non arretrava di un centimetro». Lei era una bambina ai tempi del rapimento. E anche i figli di Amonn. Arno, che adesso ha preso in mano le aziende di famiglia, aveva poco meno di nove anni; due anni di più Sylvia, due in meno l'ultimogenita, Bettina. La sera del rapimento era domenica. Dopo la partita del Bolzano erano finiti tutti, giocatori, dirigenti, in una pizzeria di via Rovigo. Lui, il presidente, era sempre l'ultimo ad uscire. «Gli ho stretto la mano e l'ho salutato. Eravamo rimasti solo noi», ricorda Johansson, l'allenatore di ghiaccio. Sotto casa, in via della Torre, trova la banda che lo aspetta. Ander sembra gracile, ma tira pugni come un mastino. Ci vuole un fendente sulla tempia con la chiave inglese per farlo svenire.

«Grazie “Alto Adige”», dirà dopo essere tornato libero. Il giornale è stato l'unico suo amico per due mesi. Guardava le cronache delle partite. E la classifica. «Come sta il Cortina?», fu una delle sue prime preoccupazioni, appena tornato in ufficio. Le catene gli consentivano di girare le pagine. "Forza Bolzano" pensava, e la tenda sembrava meno buia. Sono le prime pagine del nostro giornale, con firma e data, a certificare la sua contemporanea prigionia. E a garantire che è ancora vivo. «Io e i miei cugini stavamo sempre insieme. Tutta la famiglia aveva deciso di stare unita per far passare meglio quei mesi. Ma eravamo piccoli. Ci dicevano: non litigate. Ma gli adulti stavano da una parte e noi dall'altra. Volevano tenerci fuori», ricorda una delle nipoti.

Non c'è da stupirsi.

Lo zio di Ander, Walther Amonn, aveva creato una fondazione artistica.

I genitori andavano a Venezia, alla Biennale, quando, della Biennale stessa, non uscivano neppure le recensioni sui giornali. Era la frontiera. Sarà stata questa luce una delle ragioni della "non organicità" di Ander Amonn rispetto alla società in cui operava, lui, che pure ci stava dentro fino in fondo come ruoli, dalla presidenza della Cassa di Risparmio, alle cariche nella Associazione degli industriali, alla Despar. Quel suo saper star in mezzo alle cose mantenendo sempre un occhio al di fuori. «Il suo sguardo era a 360 gradi», dice Ennio Casciaro. Il titolare della "Goethe" si riferisce all'arte, alla sua curiosità. Ma era uno sguardo che lo seguiva ovunque. In bocca ai rapitori ci era arrivato con la sua Volkswagen. Solo, senza mai un autista. «Conta poco? - dicono i figli - Non è detto. Era uno dei suoi tanti segni». Uno così, senza paraocchi, non poteva non avere un rapporto diretto con le sue passioni. Con l'hockey. Parlare con Benvenuti lo rendeva felice. «Perché non hai tirato subito, Rolly?». E’ infelice ma combattivo quando legge le critiche sul giornale. Dopo uno scudetto perso l'"Alto Adige" se ne uscì con un'inchiesta senza (apparente) fine: «Cronaca di una delusione». Decine di puntate. Lui arrivò in redazione per chiarire le questioni, di persona. Ander Amonn, 80 anni, è stato (anche) tutto questo. «Un signore» dicono di lui adesso. Domani i funerali, nella chiesa di Gries. I familiari hanno scritto: si prega di rinunciare ai discorsi. Pensavano a cosa avrebbe chiesto Ander.













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