Il flipper della storia

di Mauro Fattor


Mauro Fattor


La questione toponomastica mette a fuoco un’idea di tempo e di storia. O meglio, l’idea di tempo che condiziona il dibattito politico e che determina il peculiare atteggiamento verso gli eventi storici comune alla Volkspartei e ai partiti che si trovano alla sua destra, cioè alla totalità dei partiti di lingua tedesca dell’Alto Adige con l’esclusione dei Verdi interetnici. L’idea è quella di un tempo ripiegato su se stesso.
Un tempo tendenzialmente immobile, privo di profondità e schiacciato su pochi eventi. Per il buon senso comune, affermare che non si dà storia senza tempo può sembrare un’ovvietà, eppure il tempo di Durnwalder è proprio lì a dimostrare il contrario: è un tempo antistorico. Sembra una cosa complicata, ma non lo è affatto. Basta immaginare un monolite: ogni punto è eternamente identico a se stesso e non c’è distanza percepibile tra i singoli punti. Duro e refrattario. Detta così a qualcuno verrà in mente il monolite di «2001 Odissea nello spazio» di Kubrick. Perfetto. Quello di cui parliamo è identico, ma a solcare la sua superficie ci sono tre profonde fratture in corrispondenza del 1809, del 1918 e del 1922. Sono quelli i buchi neri che si divorano tutto, che attirano a sé e inghiottono tutto ciò che passa nelle vicinanze esattamente come accade con i buchi neri in astrofisica, divoratori di materia. Il tempo presente che tocca il monolite si infila immancabilmente dentro una delle tre fratture. Quella tre fratture temporali, che segnano le discontinuità decisive della storia recente (sud)tirolese, sono la griglia attraverso cui vengono vagliati l’oggi e ogni possibile futuro. Una specie di cronoflipper, si potrebbe dire. Un flipper in cui uno butta la pallina e sta lì a vedere che traiettoria prende, dove rimbalza e dove si infila. Si infilerà nel 1809 o nel 1918? Oppure nel 1922, quando Mussolini prese il potere? Non c’è evento o fatto rilevante, soprattutto su temi anche vagamente identitari, che riesca ad evitare queste forche caudine. Ed è in virtù di questo meccanismo che i monumenti del Ventennio restano fascisti per l’eternità; che l’adunata degli alpini nel 2009 risultava incompatibile con il bicentenario della rivolta hoferiana; che i toponimi italiani - a 90 anni dalla loro introduzione - sono sempre e solo ancora «le fantasiose invenzioni di Tolomei» e mai i nomi che una comunità riconosce come propri. Quelle tre fratture infatti comprimono selettivamente su pochi eventi del passato tutto ciò che accade qui e ora, ridando senso e nuova vita a regimi morti e sepolti e persino alle pietre mute. È negato qualsiasi sviluppo temporale e l’eterno ritorno dell’identico ripropone all’infinito gii stessi paradigmi. Una condanna o un’ossessione, a scelta.
Tutto ciò ha effetti talvolta paradossali, alcuni dei quali persino grotteschi. Altri invece sono sinceramente preoccupanti. Tra quelli grotteschi da segnalarne uno fresco fresco: la possibilità di mettere in rete il Museion di Bolzano con il Mart e il Guggenheim di Venezia dentro un progetto di NordEst capitale della cultura, viene prospettata come la ricostituzione del Triveneto fascista. Ancora: il Cai - che propone una ragionevole lista di soli 2775 toponimi contro gli 8000 circa del Prontuario - viene dipinto sulla stampa di casa Athesia come l’associazione che «scommette ancora su Tolomei». E ancora: sulla Zett l’ex-capitano del Tirolo Wendelin Weingartner, fa la lezione all’Italia, Paese che, dice lui, si trova a metà del guado nel fare i conti col proprio passato fascista (il che, detto da un austriaco, fa quasi sorridere). «Chi vuole conservare il Monumento alla Vittoria - tuona Weingartner, allergico a qualsiasi complessità - vuol dire che ancora non ha tagliato i ponti con il regime che lo ha espresso. Perché un simbolo è eternamente un simbolo». Dunque i fascisti sono ancora qui, tra noi. Sono tutti coloro che si sono espressi per la storicizzazione della monumentalistica del Ventennio: storici dell’arte, urbanisti, architetti di lingua italiana e di lingua tedesca, uomini di cultura. Tutti fascisti, secondo la logica di Weingartner, condivisa da ampi settori della società sudtirolese. E qui veniamo, appunto, all’aspetto più preoccupante della questione. Che la pregnanza simbolica sia mutevole e non fissata in eterno, e che sia il tempo il motore della mutazione, è un dubbio che pare non fare breccia.
Come già aveva efficacemente segnalato il sociologo Luca Fazzi proprio dalle colonne del nostro giornale, questo appiattimento del presente-futuro sul passato riproduce e ripropone implicitamente e con continuità un’identificazione pericolosa tra altoatesini di lingua italiana e fascismo. Questo apre la strada a processi di delegittimazione che minano il senso stesso dello Statuto di Autonomia e che fanno comprendere quanto siamo lontani dallo sfruttarne appieno le potenzialità. La società e la politica sudtirolesi non riescono ancora a fare serenamente i conti con la storia. Le tre fratture sembrano ferite eternamente aperte.
Se a quarant’anni dal varo del Secondo Statuto e a vent’anni dalla quietanza liberatoria, in un quadro di consolidamento delle garanzie di autogoverno, l’unico spazio politico che si apre è per un forte blocco sociale a destra della Volkspartei, forse qualche domanda sarebbe opportuno farsela. Non c’è ancora superamento della storia nel senso di aprirsi al futuro, a nuovi scenari. L’idea è sempre e ancora quella di riportare il monolite alla compattezza primigenia. In questa logica revanscista di chirurgia storica ricostruttiva, si può gioire persino nello strappare un innocuo Lago Rodella alla controparte, restituendolo alla perfezione platonica di Radlsee. Ma questo non è superare la storia, questo è farci a cazzotti. Come coi monumenti. Io ti do l’Arco di Piacentini ma tu mi dai il Monumento all’Alpino. È un po’ come scambiarsi le figurine dei calciatori. I cultori della Panini ricorderanno - all’inizio degli anni ’70 - il mitico Pizzaballa, che nessuno conosceva. Pizzaballa, misconosciuto portiere prima dell’Atalanta e poi della Roma, è diventato quasi una leggenda. La sua figurina era praticamente introvabile e ha impedito a generazioni intere di bambini di concludere l’album con gli eroi della serie A. Qui, più o meno, è la stessa cosa. Siamo lì a scambiarci le cose, a barattare pezzi di identità e di storia, ma - da qualche parte - ci manca sempre un pizzaballa. Ci manca sempre qualcosa che ci consenta di dire: signori, il campionato adesso è finito. Chiudiamo l’album e pensiamo al prossimo.

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