«Il vaccino? Forse entro l’anno Ma per averlo ci vorrà molto» 

L’intervista. Il farmacologo Silvio Garattini: «Niente sarà come prima per diverso tempo: ecco perché si deve tornare a investire sulla ricerca. Una cosa deve essere chiara: non ci sarà un giorno in cui tutti andremo a brindare in piazza»


Valentina Leone


Bolzano. Ha dedicato l’intera sua vita alla scienza, ai numeri, ai fatti. Tre parole e un metodo rimasti per troppo tempo chiusi in soffitta, almeno nel dibattito pubblico, e che l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha invece prepotentemente rimesso al centro della scena.

Di questo il farmacologo bergamasco Silvio Garattini, novantuno anni, presidente dell’Istituto Mario Negri di Milano, non può che essere soddisfatto. A patto che gli elogi di questo periodo rivolti a medici e ricercatori non vengano poi cancellati quando si tratterà di investire. Di sostegno alla ricerca, di cure, vaccini e opportunità ha parlato nel corso della lezione tenuta attraverso la piattaforma Zoom agli studenti dell’Università di Trento, all’interno del corso Jean Monnet dedicato al biodiritto europeo.

Professor Garattini, partiamo dai dati. Cosa ci dicono in questo momento?

Le cose stanno migliorando, la percentuale di aumento dei malati è scesa di oltre dieci punti percentuali. C’è una diminuzione del contagio e questo fa ben sperare. Così come fa ben sperare la progressiva diminuzione dei ricoveri in ospedale.

Cosa ci aspetta prossimamente?

La fine del periodo di completa clausura e la ripresa, graduale, delle attività. Una cosa deve essere però chiara: non ci sarà un giorno in cui tutti andremo a brindare in piazza. Nulla sarà più come prima, almeno per un bel po’ di tempo: teatri, cinema, concerti, stadi. Gli assembramenti ai quali eravamo abituati un tempo non ci saranno. Il governo darà delle regole, io immagino che i primi a tornare al lavoro saranno quelli che mandano avanti i settori più importanti, fondamentali per le attività economiche. Poi, a tempo debito, sarà la volta delle scuole.

A proposito di ripartenza, si ritiene che uno dei settori più penalizzati sarà il turismo. Un territorio come il Trentino Alto Adige, che vive in larga parte di questo, come si dovrà muovere?

Per un po’ di tempo non sarà possibile avere gli affollamenti che ci sono stati nel passato, bisognerà procedere gradualmente ed essere più cauti se si vuole difendere la salute e non vedere una recrudescenza della malattia. Questa però potrebbe anche essere l’occasione per inventare qualcosa di nuovo, trovare modalità diverse e innovative per vivere il turismo, premiando contesti e situazioni che evitino gli assembramenti. Nel frattempo, bisogna sperare nell’arrivo del vaccino, dello sviluppo dell’immunità di gregge.

Ritiene plausibile che il vaccino sia pronto entro la fine dell’anno?

Sì, che ci possa essere per allora è probabile. Cosa ben diversa è però la produzione e la distribuzione. Ad esempio, con anticipo bisognerà fare in modo che ci siano accordi fra i governi per far sì che il vaccino, scoperto in un determinato paese, sia disponibile per la produzione anche per tutti gli altri stati, altrimenti rischiamo che ne beneficino in pochissimi.

Poi c’è tutto il fronte delle cure. Qualcuno sostiene che si debba guardare anche alle possibili nuove terapie, più che a un eventuale vaccino. Lei è d’accordo?

Certamente. Prenda, ad esempio, l’Hiv: ad oggi non abbiamo ancora un vaccino ma abbiamo farmaci che permettono ai pazienti di vivere una vita il più possibile normale. Se si trovasse un farmaco efficace il vaccino diventerebbe meno urgente.

Dopo decenni di tagli alla ricerca e alla sanità, medici e scienziati sono tornati al centro della scena.

Se lo aspettava?

La realtà richiede che oggi la scienza abbia il suo posto. Ricordo però che questo paese ha lasciato il nostro settore nella miseria, e questa è una delle cose a cui bisognerà assolutamente rimediare se si vuole che la scienza dia veramente un contributo. Tanto per fare degli esempi, in Italia per milioni di abitanti abbiamo la metà della media dei ricercatori presenti negli altri paesi europei. Sul fronte delle risorse le cifre sono ridicole. E poi c’è un altro problema.

Quale?

La scuola. Bisogna iniziare a recepire la scienza, che ad oggi non è presente come impostazione, ma semmai solo nei contenuti degli insegnamenti. La scienza come portatrice di conoscenza oggi non c’è e manca lo studio della metodologia scientifica, e questo è importante se vogliamo che faccia parte della nostra cultura.

Si è detto anche, a proposito di riflessioni e cambiamenti, che un’Italia con ventuno sistemi sanitari diversi non va bene. Condivide?

Sì, assolutamente. Non è possibile avere così tanti sistemi, con forti sproporzioni anche dal punto di vista del numero di abitanti. Certo, bisognerà fare tesoro di ciò che di buono hanno messo in campo questi ventuno sistemi, ma servirà ridimensionare alcune cose e al contempo rafforzare la parte di coordinamento, che in questa situazione non è esistita. Le differenze talvolta sono giustificate, talvolta no.

E su questo servirà non solo maggiore sinergia, ma anche la garanzia di più servizi, uguali e dappertutto. Poi c’è il tema del rapporto tra pubblico e privato, emerso con forza in Lombardia, ma credo che una riflessione andrà fatta anche su questa visione “ospedalocentrica” che in molti casi si è rivelata dannosa.

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