Il vertice e il rimosso della politica


Sergio Baraldi


Parlarsi è sempre un bene. Dunque, bene ha fatto il ministro degli Esteri Frattini a incontrare il presidente Durnwalder a nome del governo e del Pdl per aprire una canale di comunicazione istituzionale e politico. Ma parlarsi non basta, se si dimentica il quadro nel quale questo vertice finisce per essere collocato. La questione essenziale sembra questa: ministro e presidente si stringono la mano in quale prospettiva? L’impressione, per ora, è che l’incontro avvenga all’insegna del tatticismo per entrambi, con la coda inevitabile di opportunismi politici. La Svp ha una lunga lista della spesa che il nostro giornale ha pubblicato ampiamente e che sono altrettante tappe per applicare alcuni dispositivi previsti dall’autonomia. Con il consueto pragmatismo, la Svp sembra discutere con il governo della destra secondo la logica della massimizzazione del proprio profitto politico. La prudenza di alcuni deputati non sembra dettata da principi o valori, ma dalla possibilità o meno di incassare qualche provvedimento che la Svp giudica vantaggioso. L’altro protagonista si presenta più nelle vesti di ambasciatore politico del governo e meno come ministro degli Esteri, che dovrebbe rappresentare l’interesse generale del Paese e del territorio. E anche in questo caso i tatticismi e gli opportunismi non mancano. Non occorre essere uno stratega per capire che il governo con la più forte maggioranza della storia repubblicana oggi si trova in bilico in Parlamento.
Berlusconi è alla ricerca di puntelli per evitar un voto che forse premierebbe Bossi ma non il Pdl, almeno stando ai sondaggi più accreditati. Del resto, un interlocutore politicamente indebolito è sempre l’opzione preferita dalla Svp, come con Prodi e la sua risicata “maggioranza”. Del resto, i protagonisti del disgelo sono gli stessi che, appena pochi mesi fa, alle elezioni comunali, sono apparsi in prima fila nella linea dell’oltranzismo italiano. L’onorevole Biancofiore è nota per i suoi slogan immaginifici, un “tricolore in ogni maso” e la gomma con sopra scritto “cancella la Svp”, episodi che possiamo archiviare come folklore politico, ma sul quale il centrodestra si è giocata la carica di sindaco di Bolzano. Perdendo. Né si può dimenticare, per rispetto della verità, che l’onorevole Holzmann aveva indicato per tempo la via del dialogo con la Svp, ma è stato attaccato e gli è stato imposto un candidato sindaco che era previsto che non avrebbe fatto breccia nella difesa avversaria.
Quello che più fa riflettere è che il ministro Frattini, un politico intelligente e avvezzo alle insidie della scena mondiale, si sia fatto persuadere a impegnarsi su una linea che spingeva il centrodestra ai margini della competizione elettorale. Le sue dichiarazioni in campagna elettorale furono di appoggio alla linea radicale, e pesarono per convincere l’elettorato tedesco a mettersi in fila per votare Spagnolli. In politica capita più di frequente di quanto non s’immagini che le elezioni non le vince un contendente, ma le perda l’altro. Esiste una statistica nazionale e locale ampia, con relativa letteratura. In conclusione: la linea radicale scelta dalla maggioranza del centrodestra al voto si è rivelata un fattore decisivo per la vittoria di Spagnolli. Oggi, semmai, il problema è convincere il sindaco che non ha fatto tutto da solo. Il Pd, credo, ne sappia qualcosa. Perché ricordo questi dati ai lettori? Perché il cambio di rotta del ministro Frattini è, a mio avviso, positivo, più in sintonia con il suo profilo moderato. Ma all’opinione pubblica occorre spiegare le ragioni della virata. E’ più che lecito riflettere sulle proprie mosse e sui risultati ottenuti, ma questo significa offrire ai cittadini una risposta incardinata su un progetto, su una diversa visione delle cose, per dare un significato al cambiamento. Ringrazio l’on. Biancofiore per le sue interviste, ma vorrei farle notare che non sembra proprio una spiegazione conclusiva sostenere che le questioni etniche ormai siano “così anacronistiche” o che, in ogni caso, c’è lei a garantire che non si commetteranno passi falsi. L’on. Biancofiore ha la nostra considerazione. Tuttavia, su un tema così delicato in Alto Adige, la sua rassicurazione è preziosa ma non sufficiente: occorrono ragionamenti e comportamenti coerenti. Quindi, anche la parte italiana rischia di essersi recata al vertice spinta da un’emergenza, che non è dell’Alto Adige ma di Roma, di Berlusconi, con il rischio che tutta l’operazione sia limitata dal medesimo tatticismo che ci sembra di scorgere dal lato della Svp. Credo che i lettori sappiano bene che il nostro giornale è schierato a favore di un dialogo che superi le resistenze e gli ostacoli a una piena convivenza tra gruppi linguistici diversi. Ma è proprio questo il nodo che il vertice non sembra avere affrontato. La nostra è una democrazia etnica trapiantata in Italia, il principio fondante delle sue istituzioni è la divisione tra nazionalità. E’ grazie a questa architettura che l’autonomia è cresciuta, ma essa non ha cancellato il fondo ambiguo di questa visione. L’Alto Adige potrebbe essere considerato un territorio nel quale vivono due”nazioni” che parlano due lingue e, quindi, quella etnica è un’identità sociale da entrambe le parti. Il miracolo dell’autonomia è di avere permesso, nonostante questo, una procedura della convivenza, ma al suo cuore vive la logica dell’esclusione. Il che si traduce in un limite nella rappresentanza, che segna internamente il sistema, e congiura per il fallimento della piena convivenza. Possiamo ricorrere a un paradigma psicoanalitico: l’esclusione e la sua logica di negazione della visibilità e della legittimazione dell’altro, di assoggettamento dell’altro a un ordine che non sia il suo, è il rimosso della politica altoatesina, in particolare della Svp, che più dei partiti italiani risente delle spinte etniche cavalcate dalle destre. Questo sembra anche il rimosso del vertice. E’ chiaro quello che occorrerebbe: un secondo tempo dell’autonomia, che è stata un’invenzione tedesca subita dagli italiani, ma che ora si sta rivelando come la bussola per consentire alla società di costruire una diversa identità e avviare al suo interno un percorso di riconoscimento reciproco tra italiani e tedeschi. E’ quel patriottismo autonomista di cui parla oggi il prof. Di Michele. Anche la proposta di sospensione del prof. Palermo sembra suggerire una via simile. La psicanalisi ci avverte che il rimosso ritorna sempre e lo fa in forma spettrale, fantasmatica a ossessionare l’inconscio collettivo. Difatti, sia la Svp sia alcuni settori italiani minoritari sentono la pulsione etnica riemergere e trasformarsi nel sintomo che li obbliga all’affermazione della propria identità composta di simboli (i cartelli), del mito dell’origine, della rivendicazione della propria versione della storia, della credenza in un destino. L’identità etnica, cioè, è la questione culturale di una comunità. La politica può fare molto per cambiare questa cultura, per arrivare all’obiettivo di una terra in cui italiani e sudtirolesi comprendano che hanno più cose in comune di quanto non dicano. Si dovrebbe porre le basi per un secondo tempo dell’autonomia, in cui le conquiste di questi anni siano conservate, ma la giustificazione ideologica cambi: non più la divisione etnica (”Più saremo separati, più ci conosceremo”) ma la convivenza e il reciproco riconoscimento. Molti segnali sembrano dirci che la società civile, italiana e tedesca, sembra più disponibile a compiere questo passo in vanti rispetto al passato. Il vertice tra Frattini e Durnwalder, quindi, va salutato come un passo positivo, perché riallaccia un dialogo interrotto e reintroduce il centrodestra nel discorso sulla costruzione di qualcosa di nuovo. Nello spazio italiano s’innesca una nuova dialettica il cui esito sarà da valutare. Forse i partiti italiani più che competere tra loro per governare con la Svp dovrebbero essere capaci di indicare una proposta minima comune sull’autonomia per spingere la Svp a uscire dall’immobilismo. Un vertice non basta per aprire una fase, ma può chiudere quella del passato, se non prevalgono gli interessi immediati. Sarà questo il caso? Il filosofo tedesco Hegel ci ha insegnato quanto sia decisiva la lotta per il riconoscimento nella società, ma il riconoscimento implica che esso avvenga in relazione con l’altro, come desiderio di riconoscimento da parte dell’altro.
Una partita così complessa non può diventare una fiche da scommettere al tavolo di un governo a corto di fiducia. Italiani e tedeschi non meritano di essere pedine di uno scambio. Invece, meritano una politica italiana e tedesca responsabile, che abbia il coraggio di progettare il futuro.

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